Affidata a fogli, taccuini, brogliacci destinati a essere buttati, ogni attività letteraria conosce una fase spesso invisibile a altri che non siano l’autore stesso. E può accadere che non solo la sua gestazione, in quanto laboratorio di un prodotto in fieri, sia confinata spesso per sempre in una sfera privata, ma che le si associ una forma di ritrosia, se non di vergogna, all’idea di esibire i suoi risultati.
È abbastanza evidente, per esempio, come la scrittrice olandese Anjet Daanje – che ha dichiarato di aver costruito i personaggi del suo romanzo Il canto della cicogna e del dromedario (traduzione di Laura Pignatti, Neri Pozza, pp. 736, € 23,00) a immagine di Charlotte e Emily Brontë – abbia a lungo riflettuto su come riprendendo un classico letterario – in questo caso Cime Tempestose – un romanzo possa alimentarsi più delle parole che ne restano fuori, che di quelle visibili sul testo: «Julia non riusciva a capire per quale motivo si sforzassero di scrivere racconti così meravigliosi se poi nessuno li avrebbe letti. “È come coltivare le patate in cantina” disse. Millicent lo trovò un paragone scioccante, quasi le loro parole non potessero tollerare la luce del giorno e crescessero al buio simili a pallidi germogli irsuti e ripugnanti che avrebbero reso le patate del tutto immangiabili».
Il genere biografico si esprime spesso entro una cornice che rischia di risultare decorativa, così che nel tentativo di rendere giustizia a una vicenda umana si produce il risultato di disinnescarla. Nel caso di Anjet Daanje, invece, trasporre le esperienze esistenziali e letterarie delle sorelle Brontë sul terreno di un nuovo romanzo ha fatto sì che ne venisse fuori un lavoro infedele e inclassificabile, basato su ciò che Emily Brontë non ha pubblicato, non ha scritto, non ha vissuto, e privilegiando piuttosto le congetture, quando non le calunnie, che nel tempo hanno investito la sua figura.
Tutto verte attorno a un triangolo affettivo che comprende Millicent, il pastore Jennings suo sposo, e Eliza May, che con il pastore ha brevemente convissuto: siamo in un borgo inglese di metà Ottocento, con l’inevitabile repertorio di invidie, sospetti e timor di dio, dunque c’è di che suscitare più di un vago perturbamento; ma al di là della trita iconografia fatta di piccole tragedie familiari, si consuma entro quella cerchia un inaspettato scandalo, ben più grave delle premesse. Le sorelle Millicent e Eliza May Drayden hanno pubblicato in gran segreto due romanzi, titolati Haeger Mass e Widow, tra le pagine dei quali Daanje riversa più o meno esplicitamente la aneddotica che ha circondato a suo tempo l’uscita di Cime tempestose. Nessuno ne parla direttamente, ma il lettore viene a sapere sia tramite le lettere destinate da Milliden a un’amica d’infanzia, sia dalle confessioni della seconda moglie del pastore, sia dalla biografa di Eliza, in una sorta di convulso collage in cui i piani narrativi si accostano e si allontanano mentre l’attenzione al tempo stesso gravita attorno a un centro e ne devia di continuo verso vicende collaterali, che non sempre portano i fatti a collimare. Così, il romanzo moltiplica le sue versioni, sia allo scopo di confondere le acque e preservare l’anonimato delle autrici sia alimentando il sospetto che le voci narranti siano inaffidabili: precisamente come fingeva Emily Brontë, affidando l’accrescersi del mistero a un narratore che non ricorda o finge di non ricordare, riporta erroneamente i fatti, crede di aver visto qualcosa che al lettore appare improbabile.
Se in Cime tempestose le autrici citate – reali o fittizie –pubblicavano i propri lavori sotto pseudonimo, provocando la curiosità di lettori e biografi, nel Canto della cicogna e del dromedario questo si traduce in una caccia ai fantasmi, scatenata dalla autrice olandese, che manda spettri notturni e manifestazioni delle proprie ossessioni letterarie a visitare i personaggi smaniosi di risposte. Tra romanzo epistolare, criptobiografia e saga familiare, il libro di Daanje segue per lunghe parti i codici narrativi dell’orrore, spargendo per la trama storie di fantasmi e psicopompi, ma anche di salme, becchini ed estreme unzioni, in un registro purgatoriale, di perenne sospensione.
Al di là dei passaggi più macabri, è grande la di maestria di Anjet Daanje nel raccontare in una lingua umbratile la soglia fra la vita e la morte, senza alcun bisogno mascherato di far presagire il decomporsi della morale borghese, smascherandone «l’anima ripugnante». Diversamente da quanto ci si aspetta da una biografia romanzata, qui Daanje evita di ricalcare le atmosfere, gli umori e insomma le coordinate del romanzo di Emily Brontë, occultando le corrispondenze fattuali e stabilendo con il testo di Cime tempestose un rapporto né celebrativo, né mimetico, bensì fertile di nuove invenzioni, che – come ha scritto David Watkins in Infamia e biografia – rivela nelle vite immaginarie «affetti e posture che finiscono per dare della vita un’immagine più nitida di quanto avrebbero voluto».
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