In due recentissime ordinanze la Corte di Cassazione ha ritenuto che al giudice sia consentito di riqualificare in evasiva la fattispecie ritenuta elusiva in sede di accertamento dall’Amministrazione finanziaria. L’assunto è che tale modifica non recherebbe nocumento alcuno al diritto di difesa, perché i fatti posti a base della rettifica fiscale rimangono gli stessi, mutando esclusivamente la loro “sussunzione” giuridica. Si tratta di decisione di grande impatto sistematico su cui merita soffermarsi per verificarne la correttezza alla luce sia della disciplina, peraltro di recente riscritta, della motivazione degli atti impositivi, su cui il giudice, a voler seguire la ricostruzione della Corte, potrebbe intervenire, sia della natura del processo tributario, tra giudizio rigidamente impugnatorio e giudizio di impugnazione-merito finalizzato all’accertamento del rapporto di imposta.
Con due ordinanze identiche (
la n. 444 del 9 gennaio 2025 e
la n. 580 del 10 gennaio 2025), la
Corte di Cassazione, Sezione tributaria, ha ritenuto che la qualificazione della
condotta contestata al
contribuente da parte dell’Agenzia delle Entrate come
abusiva sia suscettibile di essere
riconsiderata da parte del giudice che si convinca dell’insussistenza dell’”utilizzo improprio o distorto dello strumento negoziale” finalizzato allo “scopo specifico, seppure non esclusivo, di eludere la norma tributaria e di ottenere in questo modo un vantaggio fiscale”.
Il tutto con
rilevantissime conseguenze rispetto ai
fatti di causa: la
riconduzione della
fattispecie all’
evasione anziché all’
elusione fiscale (e, quindi, la presa d’atto dell’errore commesso dall’ente impositore in sede di motivazione dell’accertamento) permette di
salvaguardare la
legittimità dell’atto impositivo non preceduto dalla richiesta di chiarimenti imposta all’Amministrazione, che voglia rendere a sé inopponibili le trame (ritenute) elusive ordite dagli operatori, dall’
art. 37-bis, comma 4, del
D.P.R. n. 600/1973 (analogo obbligo è oggi imposto dall’art. 10-bis, comma 6, dello Statuto dei diritti del contribuente), il quale stabiliva che l’inadempimento determinava la nullità del successivo accertamento (oggi, in vigenza del nuovo art. 7-bis dello Statuto, si scriverebbe “a pena di annullabilità”). Non vi sarebbero infatti, a detta dei Supremi giudici, “ostacoli particolari alla riqualificazione della fattispecie” (si cita peraltro un precedente, la
sentenza della corte di Cassazione n. 27550/2018), non realizzandosi, per effetto di essa, “alcun nocumento al diritto di difesa, non solo perché i fatti posti a base dell’accertamento restano intatti e muta solo la sussunzione giuridica, ma anche in quanto nessuna lesione del contraddittorio procedimentale è avvenuta nella fattispecie, riqualificata come evasione fiscale”, essendo decorsi, al momento della notifica dell’accertamento, i 60 giorni dalla consegna del verbale previsti dall’allora vigente art. 12, comma 7, dello Statuto per le osservazioni e richieste del contribuente.
Si tratta di conclusione dalla dirompente portata sistematica, della cui fondatezza è tuttavia lecito dubitare per le ragioni che qui di seguito si espongono.
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Nel 1912
Carl Schmitt scriveva, in quell’aureo libretto che è Gesetz und Urteil (trad. it. Legge e giudizio, Milano, 2016), che la sostenuta tesi secondo la quale “la
decisione di un giudice deve essere considerata
corretta quando si può ritenere che un
altro giudice avrebbe
deciso nello stesso modo” (p. 93) non mette di certo fuori gioco il diritto positivo, perché “la sussunzione sotto la legge continua a costituire il mezzo più sicuro per essere certi che un altro giudice, trovandosi nella medesima situazione, avrebbe deciso nello stesso modo”, di talché “la decisione presa in conformità a quello che è il contenuto evidente della legge non può che essere considerata sempre corretta” (p. 112). Nel
nostro caso l’
evidenza del contenuto è palesemente
sussistente, specificandosi nell’
art. 7, comma 1, dello
Statuto del Contribuente, riscritto in sede di riforma espungendo ogni riferimento all’
art. 3 della
legge n. 241/1990, che gli atti dell’Amministrazione finanziaria debbono recare, a pena di annullabilità, i “presupposti” (prima erano i presupposti “di fatto”), i “mezzi di prova” (precedentemente non contemplati) e le “ragioni giuridiche su cui si fonda la decisione”. A fronte della ricordata previsione,
vano si rivela il tentativo di sostenere che la
difesa non risulterebbe
compromessa dalla
riqualificazione operata ex officio del
giudice perché i “fatti” rimarrebbero comunque i medesimi: tale assunto si fonda sulla discutibile tesi secondo la quale sarebbe possibile non solo scindere agevolmente il fatto dal diritto, ma anche considerare le “ragioni giuridiche”, componente essenziale della motivazione, come elemento diverso e ulteriore rispetto alle “qualificazioni giuridiche”.
Vero è, invece, che la
possibilità di
prendere atto dell’”
errore commesso dalla stessa
Amministrazione finanziaria” e di rettificare, in conseguenza, la qualificazione giuridica della fattispecie finisce per consentire al giudicante di
riscrivere la
motivazione degli atti, per tale via
compromettendo la
separazione tra
giudice, che così tradisce sé stesso diventando parte, e l’
ufficio finanziario.
Del resto, il presupposto logico su cui si fonda la tesi della Corte pare potersi ricondurre all’idea secondo la quale l’atto dell’Amministrazione sarebbe solo il mezzo da cui partire per giungere all’accertamento del rapporto tributario, idea che a sua volta si basa sull’assunto, costantemente ribadito dalla Cassazione, che nel
processo tributario siano
rinvenibili le caratteristiche di un
giudizio di impugnazione-merito. Pur non essendo questa la sede per soffermarsi sulle teoriche dell’oggetto del processo tributario tra costitutivismo e dichiarativismo (in argomento si veda il recentissimo
contributo del “glendiano”, D. Corraro, “L’oggetto del giudicato tributario”, Milano, 2024, passim, ma in particolare p. 160 e s.), quel di cui mi sembra difficile non prendere atto è che la struttura impugnatoria del processo, quale emerge innanzitutto dall’
art. 19 del
d.lgs. n. 546/1992 (che reca l’elenco degli atti impugnabili, specificandosi nel terzo comma che l’impugnazione può avvenire solo per “vizi propri” degli stessi), dovrebbe impedire al giudice di intervenire sugli atti dell’imposizione modificandone i presupposti rispetto a quelli utilizzati dagli uffici finanziari. Ne consegue, si è opportunamente evidenziato dall’Autore da ultimo citato, che, se l’
Amministrazione “
contesta la deducibilità di un costo per mancanza di competenza o per connessione dello stesso ad un reato, il giudice non può confermare la pretesa impositiva sulla base di un diverso fondamento giuridico, ossia motivando l’indeducibilità per il difetto di inerenza” (p. 224). Allo stesso modo, se l’
Agenzia delle Entrate sostiene che una determinata condotta, ritenuta priva di sostanza economica, produca esiti che confliggano con le finalità delle norme o con i principi posti a base dell’ordinamento, non sarà possibile che il collegio giudicante rilevi l’errore dell’ufficio per emendarlo, così salvaguardando l’atto che si caratterizzi per il mancato rispetto del procedimento che, invece, l’ufficio finanziario sarebbe stato obbligato a seguire, in conseguenza della qualificazione della fattispecie che ha ritenuto di preferire.
Perfino irridente, in questa prospettiva, è la verifica operata dalla Suprema Corte in relazione al fatto che, nel caso di specie, si fosse perlomeno
rispettato il
principio del contraddittorio di cui all’
art.12, comma 7, dello
Statuto del Contribuente, il quale mai, nel corso del procedimento/processo, l’Agenzia ha ritenuto applicabile alla fattispecie: sostenere che l’atto possa considerarsi legittimo solo perché risultano rispettate le regole di formazione dello stesso che l’Amministrazione non ha inteso applicare è come rideterminare a tavolino il risultato di una partita di calcio, cambiando le regole del gioco quando i giocatori sono già negli spogliatoi.
Numerosi e pressanti sono quindi gli interrogativi generati dal qui commentato pronunciamento.
Forse che il
difensore che si
oppone a una
contestazione di
elusività dell’operazione dovrebbe inserire nei propri atti difensivi dei motivi condizionati alla possibilità della rideterminazione giudiziale? Occorrerà preoccuparsi, per ritornare all’esempio surriportato, che il costo non deducibile per difetto di competenza possa essere mantenuto tale per l’assenza, decisa dal giudice, del requisito dell’inerenza? Ancora, quale significato può attribuirsi all’
art. 10-bis, comma 12, dello
Statuto del Contribuente, a mente del quale “in sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie”, se si ammette la possibilità di respingere l’eccezione difensiva su di esso fondata applicando ex officio proprio quella norma che si sia eccepito l’amministrazione avrebbe dovuto applicare perché l’atto emesso impropriamente come antielusivo potesse considerarsi legittimo?
Di qui le conclusioni.
Il successo dei tentativi di riforma, qual è stato anche quello, del tutto meritorio, di rendere più rigoroso e vincolante l’obbligo motivazionale a cui l’Amministrazione è tenuta, rischia costantemente di essere messo in discussione dallo svolgimento della dialettica legge-giudizio, la quale potrebbe, se ci si muove all’interno di confini concettuali che non risultino sufficientemente definiti, neutralizzare la portata innovativa dell’intervento, così costringendo il legislatore, novello Sisifo, a continui rimaneggiamenti dell’originario disegno, che finiscono per rendere sempre meno intellegibili le coordinate teoriche dell’azione riformatrice.
La
soluzione non sta ovviamente nelle generiche (e ingenue) invocazioni alla necessità che la legge sia scritta meglio di quel che oggi si riesce a fare: l’
art. 7, comma 1, dello
Statuto del Contribuente è inequivoco nel sancire che le
“ragioni giuridiche” poste a
fondamento della
decisione dell’
Amministrazione finanziaria costituiscono
parte indefettibile della
motivazione, così i) limitando le ragioni adducibili da parte pubblica nel corso del processo e ii) obbligando la difesa di parte privata alla contestazione di solo quanto sia contestato dall’ufficio.
Il nodo cruciale, a me pare, si colloca su un piano differente, quello della necessità di superare la diffusa convinzione secondo la quale l’interesse fiscale alla percezione dei tributi e la tutela del contribuente si pongano come irriducibili antagonisti, generandosi da tale impostazione culturale l’irresistibile tentazione a svilire il diritto positivo per far prevalere l’interesse collettivo a scapito della certezza dei rapporti giuridici che sulla prevedibilità delle decisioni dei giudici necessariamente si fonda.
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