Sul futuro di Gaza pesano 42 milioni di tonnellate di macerie

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Quindici mesi di massacri hanno fatto in mille pezzi la mappa sociale di Gaza: le sue reti familiari e di vicinato, il sistema economico, quello culturale. E poi ci sono i due punti per i quali, si dice spesso, passa il futuro di una comunità: la sanità e l’educazione. I punti su cui si costruisce il domani possibile sono in macerie.

PRIMA DI TUTTO, andranno rimosse quelle. Secondo le stime dell’Onu (ferme a ottobre scorso), il futuro di Gaza pesa 42 milioni di tonnellate di macerie, undici volte la Grande piramide di Giza. I tempi necessari a rimuoverle: 14 anni. I costi: 280 milioni di dollari ogni 10 milioni di tonnellate. A Gaza sono stati cancellati quasi 200mila edifici. Rimuovere quel che ne resta, significa scavare nell’orrore: sotto, non c’è solo terra, ci sono cadaveri. Ci sono anche ordigni inesplosi.

«Prima di pensare alla ricostruzione degli ospedali, vanno rimosse le macerie. Recuperati i corpi. Ricostruite le fognature. Ricostruite le strade. Senza strade, i camion non possono muoversi». Vivian Khalaf è la presidente del Pcrf, il Palestine Children’s Relief Fund, associazione nata nel 1992 negli Stati uniti, la più grande di quelle operative nella Striscia, ben prima del 7 ottobre 2023. Khalaf è in Italia in questi giorni insieme a Lubna Musa, amministratrice delegata del Pcrf, basata a Ramallah, e Suhail Flaifl, direttore delle missioni mediche, di Gaza City.

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LA TREGUA PONE fine ai combattimenti, non porrà fine alla morte né al processo collettivo e individuale di lutto ed elaborazione della perdita, umana e sociale, che finora i gazawi hanno dovuto in qualche modo mettere in standby. C’era da sopravvivere, più urgente.

«Le infrastrutture si ricostruiscono – dice Musa – ma come si ricostruiscono le persone? Gli arti scomparsi, le ferite che permanenti, la salute mentale in frantumi, la sparizione della propria famiglia. Prima del 7 ottobre il Pcrf a Gaza seguiva 400 orfani, ora ne seguiamo 5mila. Alcuni sono così piccoli da non saper dire il proprio nome. Non sappiamo di chi siano figli». Secondo l’Onu, i bambini orfani di almeno un genitore sono 35mila.

«Nessuna organizzazione e nessun paese può affrontare una simile devastazione da solo, servirà un immenso sforzo internazionale. Serve il mondo intero», aggiunge Musa. «Noi, come Pcrf, siamo pronti, dal giorno uno della tregua», le fa eco Flaifl. È riuscito a uscire da Gaza lo scorso maggio, insieme alla moglie e ai tre figli.

Vivevano nel quartiere al-Rimal di Gaza City, il 13 ottobre 2023 hanno ricevuto il primo di innumerevoli ordini di evacuazione e sono scappati verso sud. Non sono mai riusciti a tornare indietro: «Abbiamo pagato tanti soldi agli egiziani, siamo tra quei pochi fortunati che potevano farlo. Quando siamo arrivati in Egitto non c’era nulla ad aspettarci. La prima cosa che abbiamo fatto è stata comprare dei vestiti, non avevamo niente con noi». Prima di far scappare la propria famiglia, il 13 ottobre, Suhail ha accompagnato a Khan Younis due medici statunitensi, membri di una delle centinaia di missioni internazionali che il Pcrf ha portato a Gaza in questi anni. Missioni di altissimo livello che hanno aperto gli ospedali gazawi a terapie prima inesistenti. Come il primo reparto oncologico pediatrico al Rantisi Hospital. L’offensiva israeliana ha modificato le priorità: «In pochi giorni abbiamo capito che non si trattava di una guerra come le precedenti – dice Musa – Siamo diventati un’organizzazione per la medicina d’urgenza».

DEI CINQUANTA membri palestinesi dell’ong, due sono stati uccisi, cinque sono fuggiti in Egitto. Gli altri, tutti, sono sfollati. Hanno continuato a lavorare, negli ospedali e nelle cliniche improvvisate dove offrono medicine e terapie apparentemente “superficiali”: le cure per i malati cronici, le cure odontoiatriche.

L’Organizzazione mondiale della Sanità ha utilizzato i centri medici del Pcrf per somministrare i vaccini anti-polio, mentre i team internazionali si sono concentrati sul nord di Gaza, sotto assedio da inizio ottobre: «Si occupano soprattutto di neurochirurgia e chirurgia ricostruttiva». Le missioni internazionali non si sono mai interrotte, ma è una corsa a ostacoli: «Il via libera israeliano ai medici e agli infermieri stranieri arriva all’improvviso, il giorno stesso – racconta Khalaf – Capita che all’ultimo momento venga negato. Capita che il team venga frammentato: passa l’infermiere ma non il medico. E capita anche che Israele ritardi l’autorizzazione a uscire. Questa crisi non è logistica, è politica».

LO DICONO da mesi le migliaia di camion umanitari fermi in Egitto, bloccati da una burocrazia che camuffa con le procedure un sistema che è pensato per non funzionare. Ora si deve pensare al dopo, e al ritorno. Ci pensa Suhail: «Non l’avrei mai voluta lasciare Gaza, ora aspetto di rivederla».



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