«Credo molto nel potere dell’arte nel proporre un modello altro da seguire. La Carrà in tempi non sospetti cantava “Se ti lascia lo sai che si fa? / Trovi un altro più bello / che problemi non ha”», spiegava in un’intervista la psicologa Ameya Gabriella Canovi in merito all’importanza di usare la musica per «dare il messaggio che da una relazione che non funziona si può uscire, che non succede niente, che possiamo stare con noi stessi».
Al tempo parlavamo di donne che usano la musica per aiutare chiunque viva relazioni disfunzionali, a trovare un appiglio. Ora, a distanza di qualche mese, torniamo sul tema per raccontare chi invece scrive testi sessisti.
Dopo il caso Tony Effe, e il ritiro dell’invito a cantare al concerto romano di Capodanno, sono seguite prese di posizioni varie: diversi artisti lo hanno difeso contro la «censura», altri hanno accolto la scelta del sindaco Gualtieri, altri ancora si sono fermati a metà, cercando di approfondire una questione che, come spesso accade, si è fermata alla superficie.
Prima di tutto ricordiamo che questi tipi di testi non sono una novità degli ultimi anni. Oltre dieci anni fa Fedez (per prendere un nome noto che vanta presenze a concertoni vari e Sanremo svariati) cantava: «Stupro la Moratti / e mentre mi fa un bo***** / le taglio la gola / con il taglierino». Ma anche Masini a suo tempo intonava: «Mi verrebbe da strapparti / quei vestiti da pu*****». Ed è anche per questo che l’unica domanda giusta sarebbe stata: siamo ancora disposti come società ad accettare strofe di questo tipo?
Facciamo un passo indietro. Partiamo con un titolo: «Perché la politica pretende che siano gli artisti a educare i giovani?» Corretto. Siamo una delle pochissime nazioni in Europa a non avere un programma di educazione sessuale e affettiva nelle scuole, con otto studenti medi e universitari su dieci che cercano informazioni su Internet. E quindi, in un contesto di questo tipo, il ruolo della cultura diventa fondamentale.
Ne segue la domanda: «Gli artisti non dovrebbero preoccuparsi di veicolare messaggi corretti?» La risposta di solito è : «Si tratta di uno specchio della società». Eppure, un testo di questo tipo: «Non mi piace quando parla troppo […], / le tappo la bocca e me la fott- (shh)», quale condizione dovrebbe denunciare?
Unendo i puntini, coloro che non ricevono un’educazione all’affetto in famiglia non hanno altri luoghi in cui impararla, e di conseguenza non hanno gli strumenti per distinguere da soli se quello che ascoltano tutto il giorno è una denuncia della società patriarcale o un esempio da replicare. «È come la pornografia», sottolinea Canovi: «Se non c’è nessuno che ti fa da sponda a invitarti a distinguere un prodotto commerciale dalla realtà, sarai portato a credere che quello che vedi è reale».
«Dobbiamo chiederci se ci piace ascoltare quel tipo di contenuti raccontati così – continua -. Soprattutto perché sono nelle orecchie dei più piccoli. Nascondere il brano non è la soluzione, perché la censura genera l’effetto opposto; dovremmo imparare a discuterne con i più piccoli. Se mi chiedi se io lo vieterei ai miei figli ti direi di no, ma chiederei loro cosa ne pensano».
A differenza di un film o di una serie tv infatti, la musica ci accompagna tutto il giorno, non è una storia, non ha un inizio e una fine, ed è in grado di influenzare la vita di giovani che la tengono come sottofondo. «Credo che i cantanti debbano aggiungere alternative a questi contenuti. Se vogliono descrivere la realtà ben venga, ma magari aggiungendo anche un pensiero costruttivo e un modello altro, non solo descrittivo di rapporti violenti – aggiunge Canovi – . Dobbiamo stimolare il pensiero critico, e non perdere l’occasione di fare denuncia». Anche quando, a veicolare quei contenuti, è una figura per cui proviamo simpatia.
«Il rap si basa sulla competizione, spesso violenta, tra uomini che esprimono, ancora prima del loro sessismo, un’idea di mascolinità legata al dominio e alla forza», scriveva il magazine Lucy in un’analisi. Se a questo aggiungiamo che a rimetterci nei dissing sono sempre le donne – definite spesso pu***** e descritte come oggetti da usare e poi passare a un altro – quell’analisi diventa una buona definizione di patriarcato, dato che parliamo anche di un ambiente in cui l’accesso alle donne è ancora limitato.
«Chiediamoci se siamo degli uomini pensanti, o dei pecoroni, perché così nessuno fa ode all’intelligenza. Questi testi sono una chiara dimostrazione di pochezza e assenza di strumenti», conclude Canovi. D’altronde, non occorre necessariamente cantare: «Vorrei donare il tuo sorriso alla luna perché / di notte chi la guarda possa pensare a te» (Tiziano Ferro) per dare una dignità alla figura della donna. Ne hanno preso le difese cantanti come Olly, che durante il tour del 2023 ha cambiato il testo di una sua canzone da «il giorno che la trovo / la sposo o la ucciderò» a «la sposo o la lascio andare»; o come Francesco Sarcina, che dal palco ha fatto un appello: «Ci dobbiamo svegliare». O come Ornella Vanoni, che in Rossetto e cioccolato era riuscita già nel 1995 a cantare l’intimità senza essere volgare. E «L’importante è finire» di Mina? Era il 1974.
Quindi, cosa vogliamo dal 2025?
16 gennaio 2025 (modifica il 16 gennaio 2025 | 11:48)
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