Pensioni, Giorgetti: “Punto a non far salire i requisiti per l’uscita”. Il nodo coperture e i rischi per la sostenibilità del sistema

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“Il mio orientamento onestamente è di andare verso una sterilizzazione rispetto a queste forme di aumento. Non c’è e non ci sarà nessun decreto direttoriale finché la politica non si esprimerà e deciderà come comportarsi”. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che finora aveva taciuto sulle polemiche riguardo all’innalzamento di tre mesi dei requisiti per andare in pensione, ufficializza che la sua linea è in toto quella della Lega: intende bloccare l’adeguamento dell’età di uscita all’aumento dell’aspettativa di vita. Con tutto quello che comporterà per la sostenibilità dei conti pubblici. L’uscita sorprende, se si pensa che solo pochi mesi fa lo stesso Giorgetti avvertiva che “nessun sistema pensionistico è sostenibile in un quadro demografico come quello attuale”.

Festeggia il sottosegretario al ministero del Lavoro Claudio Durigon: “Le parole del ministro Giorgetti confermano che è stato sollevato un polverone per niente. La questione dell’innalzamento dell’età pensionabile discende da documenti tecnici inapplicabili in assenza dei dati definitivi che l’Istat deve ancora dare. È importante ricordare che l’ultima parola sul tema spetta alla politica: già nel 2019 abbiamo bloccato il meccanismo che collega quegli stessi dati all’innalzamento dei requisiti pensionistici. L’equilibrio del sistema previdenziale non è assolutamente a rischio e non richiede, né richiederà in futuro, interventi che vadano ad inasprire i requisiti sia dal punto di vista dell’età che dal punto di vista degli anni di contributi per quanto riguarda l’uscita anticipata“.

Ma la Ragioneria generale dello Stato, pur in attesa dei dati definitivi, nel suo ultimo rapporto Le tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario pubblicato a inizio luglio aveva scritto che “qualora il livello della speranza di vita a 65 anni per l’anno 2023, registrato sulla base dei dati provvisori, fosse confermato sulla base dei dati definitivi e dal 2024 si considerasse il livello del 2023 incrementato in termini differenziali sulla base delle dinamiche sottese alle previsioni demografiche Istat base 2022, l’adeguamento previsto con decorrenza 2027 risulterebbe di tre mesi”. Non farlo richiederà corpose coperture.

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Secondo il dodicesimo rapporto Il bilancio del sistema previdenziale italiano. Andamenti finanziari e demografici delle pensioni e dell’assistenza per l’anno 2023 del centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali il sistema è in equilibrio ma la stabilità nei prossimi anni dipenderà sia dalla capacità di porre un limite alle troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero e all’eccessiva commistione tra previdenza e assistenza sia da quella di affrontare adeguatamente la transizione demografica. Il numero di pensionati è salito salgono dai 16,131 milioni del 2022 ai 16,230 del 2023 (+98.743). Trainato soprattutto dal numero degli occupati, il rapporto tra attivi e pensionati è risalito fino a quota 1,4636, il miglior dato di sempre ma ancora lontano dalla “soglia di sicurezza” di 1,5. Che fare quindi rispetto ai requisiti? Secondo il presidente di Itinerari Previdenziali, Alberto Brambilla, occorre “bloccare l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, e prevedere un superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età”. Ma “occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema”, cioè “l’adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita”.

L’Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 583,712 miliardi di euro, un incremento del 4,32% rispetto all’anno precedente (24,2 miliardi): la spesa per prestazioni sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale, il 50,93%. Percentuale inferiore rispetto al 2022 (51,65%) ma soprattutto per effetto del notevole incremento delle spese in conto capitale. Rispetto al 2012, e dunque nell’arco di poco più di un decennio, la spesa per welfare è aumentata di 151,448 miliardi strutturali (+35%) soprattutto per effetto degli oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 137,25% (+78 miliardi) a fronte dei “soli” 56 miliardi della spesa previdenziale (+26,53%).

Per dare un ordine di grandezza, a partire dai dati Mef sulle dichiarazioni dei redditi ai fini Irpef riferite al 2022, il Centro studi stima che per finanziare sanità e assistenza, nel 2023, siano occorse pressoché tutte le imposte dirette Irpef, addizionali, Ires, Irap e imposte sostitutive e anche circa 33 miliardi di imposte indirette. Di conseguenza, per sostenere il resto della spesa pubblica non rimangono che imposte residue, altre entrate e soprattutto il debito.



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