Buoni del tesoro fuori dall’Isee: una scelta sbagliata*

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Il Governo ha approvato un Dpcm che prevede che i titoli di stato italiani fino al valore di 50 mila euro non vadano più considerati nel calcolo dell’Isee. Come in altri casi, si interviene su un singolo pezzo della normativa, creando iniquità e distorsioni.

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Il Governo ha approvato un Dpcm che introduce alcune novità nel calcolo dell’Isee, e in particolare dà attuazione a una norma prevista dalla legge di bilancio per il 2024, in cui si prevede che, fino al valore complessivo di 50 mila euro, i titoli di stato italiani (nonché gli altri prodotti finanziari di raccolta del risparmio con obbligo di rimborso assistito dalla garanzia dello stato) non vadano più considerati nel calcolo. L’Isee è l’indicatore della situazione economica usato per selezionare le famiglie che hanno diritto di ricevere prestazioni sociali agevolate o per calcolare la compartecipazione al loro costo. In termini molto semplificati, l’Isee si ottiene sommando al reddito della famiglia il 20 per cento del valore del patrimonio. Quest’ultimo comprende sia le attività finanziarie, valutate ai prezzi di mercato, che gli immobili posseduti, al valore catastale, al netto di alcune franchigie che dipendono anche dalla composizione del nucleo familiare.

L’Isee è nato alla fine degli anni Novanta per rimediare a un grave difetto del sistema di tax-benefit italiano: la grande eterogeneità dei metodi usati per determinare il diritto a ottenere le varie prestazioni sociali, che creava ingiustizie perché famiglie simili potevano essere trattate in modo molto diverso a seconda del tipo di prestazione richiesta o del comune di residenza.

Alle buone intenzioni non sono inizialmente seguiti grandi risultati, perché tutti i trasferimenti nazionali furono esclusi dalla applicazione dell’Isee, ma a livello locale vi fu una immediata diffusione del nuovo strumento di misura. Nel tempo però l’Isee si è affermato anche per le misure decise dal governo centrale, ad esempio il Reddito di cittadinanza o l’Assegno unico per le famiglie con figli.

Se si vuole disporre di una valutazione precisa della condizione economica di una famiglia, è ovvio che lo strumento di misura dovrebbe tenere conto di tutte le variabili economiche che la determinano. Certo tutto si può discutere, anche la stessa idea di considerare non solo il reddito, ma anche il patrimonio. La giustificazione data all’epoca della nascita dell’Isee fu che il patrimonio è un autonomo indicatore di benessere, per varie ragioni: dà sicurezza e prestigio a chi lo possiede, mette in grado di affrontare spese impreviste, permette di trasmettere agli eredi un lascito o, in mancanza di eredi, di aumentare il proprio consumo nel ciclo di vita al di sopra dell’ammontare garantito dal reddito percepito. L’introduzione del patrimonio nella metrica dell’Isee viene giustificata anche dal fatto che il suo possesso può essere segnaletico di un occultamento di reddito da parte del richiedente la prestazione sociale agevolata. L’inclusione del patrimonio nell’Isee potrebbe quindi consentire di ridurre, almeno in linea di principio, i cosiddetti falsi positivi (chi risulta beneficiario della prestazione di welfare pur non avendone diritto).

Ogni strumento di misura della condizione economica, quindi anche l’Isee, crea tuttavia “trappole della povertà”: se l’accesso a una prestazione o il suo importo dipendono inversamente da questa misura, e se essa comprende reddito o patrimonio, allora si incentiva la famiglia a produrre (o dichiarare) meno reddito o a risparmiare di meno. È un aspetto inevitabile di ogni politica selettiva. L’alternativa sarebbe un sussidio universale, erogato a tutti nello stesso importo senza verifica della situazione economica, che però costerebbe molto di più e sarebbe meno redistributivo. Attribuendo un peso significativo al patrimonio, in effetti l’Isee potrebbe disincentivare il risparmio, soprattutto perché ormai viene presentato non solo da famiglie povere, che hanno propensione al risparmio molto bassa o nulla, ma anche da una parte significativa della classe media. Non esistono comunque studi, al momento, che quantifichino questo effetto.

Gli aspetti negativi

L’esclusione (fino al valore complessivo di 50 mila euro) dei titoli di stato dall’Isee potrebbe trovare una parziale giustificazione nell’obiettivo di ridurre un eventuale disincentivo al risparmio, ma non è ovviamente stata decisa per questo. L’intento è quello di spingere le famiglie a comprare titoli pubblici italiani, nella speranza che in questo modo si garantisca una maggiore copertura nazionale del debito italiano, riducendo la dipendenza dai mercati esteri. È una scelta con molti aspetti negativi.

In primo luogo, viola un elementare principio di equità orizzontale: due famiglie con uguale reddito e patrimonio sono trattate diversamente dal sistema di tax-benefit a seconda della quantità di titoli pubblici posseduta. Non ha senso che una famiglia riceva un assegno inferiore per i figli se ha investito di più in obbligazioni private invece che pubbliche.

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Viene tradita anche l’equità verticale perché una famiglia con molti titoli pubblici potrebbe ottenere più benefici di una più povera. Visto che le risorse pubbliche sono limitate, e sempre più lo saranno, l’effetto principale di questa scelta sarà di favorire l’accesso alle prestazioni sociali di alcune famiglie della classe media a danno di famiglie più povere, che resteranno escluse o riceveranno di meno.

E anche da un punto di vista degli incentivi a una corretta gestione del patrimonio non è un passo avanti. La banale regola numero uno per un comportamento di risparmio efficiente e prudente è la diversificazione: non mettere tutte le uova nello stesso paniere. Lo stato invece dà un forte incentivo a concentrare il risparmio su una sola attività, i titoli pubblici italiani, con conseguente esposizione eccessiva al rischio di perdite in conto capitale nel caso di un aumento dello spread, eventualità non da escludere visto che non si prevede nei prossimi anni una riduzione dell’alto rapporto debito/Pil.

C’è infine un altro effetto negativo: lo spiazzamento degli investimenti privati, perché azioni e obbligazioni private restano a far parte dell’Isee. Ciò renderà più difficile per le imprese trovare i fondi necessari per finanziare i loro investimenti, con un danno per la crescita economica del paese. 

*L’articolo originale è stato pubblicato il 3/11/2023.

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Massimo Baldini



Professore di Politica Economica presso il Dipartimento di Economia “Marco Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Membro del Capp, Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche, dello stesso dipartimento, del comitato scientifico della Fondazione Gorrieri e del comitato editoriale di Politica Economica – Journal of Economic Policy. Fa parte della redazione de lavoce.info.

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Stefano Toso

E’ professore ordinario nella Scuola di Economia, Management e Statistica dell’Università di Bologna, dove insegna Scienza delle finanze. Ha studiato nell’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in Scienze politiche (indirizzo politico economico) e il dottorato di ricerca in Economia politica, nell’Università di Warwick (UK), dove ha conseguito il Master of Arts in Economics, e presso la London School of Economics. Prima di assumere il ruolo attuale, ha insegnato presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna ed ha lavorato nel Servizio Studi della Banca d’Italia.



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