Immaturi, infelici, ignoranti: i “vecchi giovani” del Terzo millennio

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“La gioventù di un grande Paese – scriveva, negli Anni Trenta del ‘900,  Abel Bonnard, storica figura del pensiero controrivoluzionario  – in tempi felici riceve esempi, in tempi di crisi li dà”. In   anni non proprio “felici”, quali sono gli attuali, anche i giovani sembrano invece essere  costretti a pagare  il loro  scotto ad una crisi diffusa, che mischia incertezze economiche e gracilità valoriali, paura per il futuro e perdita di riferimenti etici.

Il termine Neet (Acronimo di Not in Education, Employment or Training), apparso  per la prima volta nel 1999, è ormai  entrato nel lessico socio-economico e  viene comunemente usato, nella fascia d’età al di sotto dei trent’anni,   per indicare chi non è impegnato nello studio, né nel lavoro e neanche nella formazione.

In Italia sono circa 1,7 milioni i giovani “in pausa”, tra i 15 ed i 29 anni,  che non studiano, non lavorano e non seguono un percorso formativo da oltre sei  mesi. Sebbene nell’ultimo decennio si stia registrando una decrescita del fenomeno, l’Italia è comunque il secondo Paese nell’UE con il tasso più alto di Neet, lontano dalla media europea dell’11,7% e preceduto solo dalla Romania (19,8%).

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Ampliando la fascia di età e portandola nel range 15-34 anni, l’incidenza dei Neet raggiunge il 20,8%. Questo perché sono proprio i giovani e le giovani tra 30 e 34 anni a rappresentare la quota maggiore di persone che non studiano e non lavorano, seguiti dalla fascia 25-29 anni (29,4%), 20-24 anni (27,8%) e 15-19 (9,2%). Sono prevalentemente donne (57,8%), con cittadinanza italiana (84%), residenti in gran parte dei territori del Sud (52%) e in possesso di un titolo di studio di scuola secondaria superiore (44%).

Il problema è oggettivamente complesso. E non può essere assimilato alla vecchia condizione del “disoccupato”. Qui ad essere rilevanti sono fattori di carattere psicologico-esistenziale, che vanno ben al di là del puro e semplice dato occupazionale. I Need sono dei veri e propri “inghiottiti dalla rete”, poiché spesso nella loro auto-reclusione, l’unico contatto con il mondo rimane quello virtuale, che passa per il web: così la loro seconda esistenza, tra chat, social newtork e giochi di ruolo online diventa prioritaria rispetto a quella reale. La mancanza di contatto sociale e la prolungata solitudine determinano nei ragazzi una perdita delle competenze sociali e comunicative.

Ad alimentare  questa condizione ci sono  disuguaglianze sociali, che riducono le possibilità di rompere i meccanismi della povertà e dell’esclusione, ed insieme  contesti familiari, culturali, economici, sociali che non investono adeguatamente sulle potenzialità dei giovani  e sul loro futuro, insieme ad una generale sfiducia verso  le istituzioni ed il mondo del lavoro, sentiti come estranei e lontani.

Ora il rischio è che il processo si accentui, aggravandosi, fino a configurare  una vera e propria condizione patologica, a livello psicologico-esistenziale, in grado di  creare un blocco in quelli che sono sempre stati considerati dei normali (“naturali” si sarebbe detto un tempo) processi di crescita individuali.

L’allarme arriva dagli Stati Uniti, dove “I trentenni americani non sono mai sembrati così poco adulti”, scrive   Rachel Wolfe, sul “Wall Street Journal”.  Calano i tassi di matrimonio e la fertilità, si allontana la possibilità per i millennials di diventare proprietari di casa, mentre – nota la Wolfe – “quello che un tempo i ricercatori consideravano un ritardo inizia a sembrare più uno stato di arresto permanente dello sviluppo”.

La prospettiva è inquietante: “Un terzo degli attuali giovani adulti non si sposerà mai, secondo le proiezioni del think tank conservatore Family Studies, rispetto a meno di un quinto dei nati nei decenni precedenti. E secondo il Pew Research Center, la percentuale di adulti senza figli sotto i 50 anni che dichiarano che non avranno mai figli è aumentata di 10 punti tra il 2018 e il 2023, passando dal 37 al 47 per cento”.

Richard Reeves, presidente dell’American Institute for Boys and Men, dice al “Wall Street Journal”.   che quello a cui stiamo assistendo è la transizione “dal più tardi al mai”, anche perché più le persone rimandano l’ingresso nell’età adulta convenzionalmente intesa, meno probabilità ci sono che questo ingresso avvenga affatto.

Le cause? Buona parte della generazione dei trentenni, ricorda il “Wall Street Journal”, se la passa effettivamente peggio dei propri genitori a livello economico, e le maggiori difficoltà a raggiungere le tappe fondamentali dell’età adulta sono innegabili. Il mercato del lavoro non offre più le occasioni del passato, specialmente ai giovani uomini, mentre l’ammontare dei debiti accumulati durante gli studi universitari sono più che raddoppiati negli ultimi due decenni, e questo a fronte del fatto che una laurea ormai non è più garanzia di trovare un lavoro ben retribuito. E tra aumento dei tassi di interesse e diminuzione dell’offerta immobiliare, “quest’anno l’età mediana degli acquirenti di una prima casa ha raggiunto il livello record di 38 anni, contro i 35 del 2023 e i 29 del 1981”-  scrive Rachel Wolfe citando i dati della National Association of Realtors.

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La questione non è evidentemente solo economica. Interrogata dall’autrice dell’indagine, Carol Graham, economista del Brookings Institute specializzata in “benessere”, dice che questo pessimismo deriva dal bombardamento di allarmi su cambiamento climatico, la polarizzazione politica, i pericoli derivanti dalle nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale eccetera. E del resto un sondaggio commissionato nel luglio scorso dallo stesso “Wall Street Journal” pare confermare  che i giovani statunitensi credono molto meno rispetto agli over 50 alla possibilità che un giorno il “sogno americano” si realizzerà davvero anche per loro.

Famiglie, istituzioni, mondo del lavoro: è il fallimento di un Sistema, un fallimento rispetto al quale i fondi dedicati alla formazione e l’estensione del diritto allo studio appaiono come i classici “pannicelli caldi”. Il problema è infatti “strutturale” e tocca la “percezione” che i giovani hanno del loro rapporto con la realtà, a cominciare dal primo ambito familiare. Vale per i Need ed è confermato dalle ultime “tendenze” d’ Oltreoceano.    

Al fondo la  netta cesura tra i giovani ed il sistema Paese, con conseguenze che – in prospettiva – rischiano di aumentare le fasce degli esclusi, degli “inghiottiti” dall’inedia, a causa di  un corpo sociale sempre più debole e sfilacciato, visti  la perdita di ruolo e di certezze autentiche offerte dalle famiglie (con  una lunga e paradossale  dipendenza dei figli adulti dai genitori),  l’avanzare dei processi di   disintermediazione, a seguito del  depotenziamento dei corpi intermedi (ed il sostanziale isolamento sociale), la precarietà (resa palese dal  lavoro in  nero).

Ad avanzare è l’autoesclusione e l’autoreclusione: un’autentica emergenza che priva  le giovani generazioni di una possibilità di futuro ed i rispettivi Paesi  di potere contare su quelle risorse culturali e spirituali, ancora prima che socio-economiche, rappresentate dai giovani. All’inverno demografico rischia insomma di seguire una sorta di glaciazione generazionale, con conseguenze disastrose per tutti, giovani e meno giovani. Esserne consapevoli è il primo passo, ma evidentemente non basta.  



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