Come tutelare il pluralismo culturale? L’esempio della Bosnia

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Tra interessi politici e carenze finanziarie, la Biblioteca Nazionale bosniaca rappresenta un caso emblematico della fragilità delle istituzioni culturali nei Balcani, richiedendo modelli innovativi di finanziamento pubblico-privato per tutelare il patrimonio e stimolare la produzione culturale

12/01/2025

In ambito internazionale, le carenze finanziarie che affliggono alcune delle istituzioni culturali della Bosnia Erzegovina ritornano spesso al centro dell’attenzione. Ultimamente, per porre fine ad una condizione precaria, l’Alto Rappresentantenha imposto al Consiglio di Stato di identificare tra i dipendenti della Biblioteca Nazionale e Universitaria della Bosnia Erzegovina una persona che assuma le funzioni di Direttore fino alla nomina degli organi direttivi e la nomina definitiva di un amministratore per la stessa.

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Si tratta di una vicenda che nel suo insieme può essere di grande interesse per il nostro Paese, perché al suo nucleo risiede un dibattito che in Italia si tende spesso ad evitare, trattandosi di una riflessione che necessariamente coinvolge dimensioni di natura politica.

Per comprendere il perimetro dell’attuale condizione, è necessario fornire alcune informazioni di base che, seppur in modo molto superficiale, consentano di inquadrare le ragioni che nel tempo hanno più di una volta minacciato la sopravvivenza delle istituzioni culturali, ed in particolar modo la Biblioteca Nazionale e Universitaria.

Siamo infatti nel cuore delle guerre della ex-Yugoslavia: una serie di conflitti che hanno ridisegnato la geopolitica e la società della penisola balcanica all’inizio degli anni ’90, e che hanno segnato la frattura di un melting-pot che aveva contraddistinto l’area nel corso dei secoli.

La compresenza di differenti popoli, secondo alcuni elemento di concreto conflitto, secondo altri veicolo di manipolazione per tutela di interessi economici e politici, ha giocato un ruolo centrale non solo in tali conflitti, ma anche nelle condizioni di pace che sono state successivamente siglate.

In particolare, la popolazione della Bosnia Erzegovina, ex provincia dell’Impero Ottomano, era profondamente multietnica, ospitando serbi ortodossi, bosgnacchi (gruppo etno-religioso costituito da popolazioni di lingua serbo-croata, convertitesi all’Islam intorno al XIV secolo) e croati cattolici.

Suddivisione che è stata poi mantenuta, e istituzionalizzata, dagli accordi di Dayton, che segnando la fine del conflitto, mostrarono anche la differente influenza politica e militare degli Stati Uniti rispetto ai tentativi europei. Ed è proprio l’istituzionalizzazione e il complesso sistema di pesi e contrappesi amministrativi e politici previsti da tali accordi che ci conduce alle vicende di cronaca attuale, con un Paese che ancora oggi si fonda su un’importante frattura tra i vari gruppi rappresentativi della popolazione, ciascuno dei quali naturalmente interessato a mantenere viva tale scissione, al fine di salvaguardare, se non incrementare, il proprio peso politico nei rapporti di potere.

In un tale contesto, la Biblioteca Nazionale e Universitaria della Bosnia Erzegovina, come riportato da Selma Bajraktarević in vari podcast e in uno speciale di EstOvest (approfondimento del Tgr Rai), racconta una storia che nessuno è interessato a tramandare: quella di una popolazione che nelle proprie differenze ha seguito un percorso comune.

Del resto, la stessa sede originaria della biblioteca fu oggetto di bombardamenti da parte dei nazionalisti serbi con la distruzione di circa 2.000.000 di libri. L’attuale sede è in un sottoscala dell’università e sotto il profilo organizzativo oggi non ha più uno status giuridico (e di conseguenza non è chiaro da chi dipenda per i finanziamenti), non ha risorse per pagare i dipendenti ed è priva di un Direttore, condizione che pone in stallo l’intera produzione editoriale della Bosnia Erzegovina, essendo tale Biblioteca Nazionale l’ente che attribuisce i codici identificativi Isbn, codice necessario per porre in vendita nuovi libri in libreria o online.

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In sintesi, quindi, la mancata volontà politica di perseverare una storia comune si è tradotta in una mancanza di fondi verso quelle istituzioni che tale storia comune conservano e tutelano, e questa condizione solleva delle questioni che non possono essere ignorate.

Gli equilibri geopolitici globali hanno mostrato, a partire dalla crisi pandemica del Covid, un forte incremento dei conflitti, che vedono oggi coinvolte tutte le principali potenze belliche presenti sul pianeta. A questa condizione globale si aggiunge una sempre maggiore rappresentatività delle spinte nazionaliste in Europa, e di un clima di diffuso autonomismo e indipendentismo territoriale.

Si tratta di condizioni che, pur se molto distanti da quelle che oggi affliggono le istituzioni culturali della Bosnia Erzegovina, non scongiurano del tutto la possibilità di interessi politici contrastanti in ambito culturale.

La storia ha più volte mostrato come, soprattutto in condizioni politiche di conflitto, la cultura, e l’informazione, rappresentino degli strumenti estremamente importanti per l’affermazione e la diffusione di interpretazioni del mondo che riflettano specifiche convinzioni. Elementi che sono ancor più visibili oggi sui social media, che attraverso sistemi molto ben congegnati introducono le persone all’interno di veri e propri “funnel” all’interno dei quali gli utenti dei social vengono sempre più esposti ad opinioni affini alle proprie, condizione che nel prossimo futuro sarà ancora più esasperata dalla sospensione del cosiddetto fact-checking, come dichiarato dallo stesso Zuckerberg.

Tra tutti gli scenari possibili, dunque, non è certo escludibile aprioristicamente uno scenario in cui, ad esempio, correnti politiche regionali autonomiste, possano avere più interesse a finanziare elementi culturali che confermino una narrazione vicina alle proprie posizioni politiche, a discapito di quelle manifestazioni che invece, pur non avendo i connotati tipici dell’eversione, siano invece ascrivibili a narrazioni più estese.

In tali ipotetiche condizioni, il finanziamento esclusivamente pubblico potrebbe comportare una reale compromissione di quegli equilibri volti a garantire il pluralismo culturale. Di contro, il finanziamento privato, e ancor più il consumo culturale (inteso come spesa privata di individui e famiglie) potrebbero agire come elemento di tutela di quello che è in realtà un “bene pubblico”.

Sino ad oggi, ogni riflessione volta a valutare un possibile incremento del peso dei privati all’interno delle istituzioni culturali è sempre stata accolta in modo tiepido, quando non apertamente tacciata di faziosità liberale.

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Con l’incremento degli interventismi politici all’interno del comparto culturale, però, una tale condizione potrebbe essere valutata come potenziale rinforzo alla libertà d’espressione e alla pluralità di opinione e di visioni del mondo che la cultura, in condizioni democratiche, dovrebbe realmente esprimere.

In Bosnia, ad esempio, la costruzione di una nuova biblioteca nazionale e universitaria, potrebbe essere possibile attraverso un finanziamento privato, e attraverso la costruzione di un modello di biblioteca differente da quello di sola “tutela”, e che associ, oltre a tali funzioni, anche la produzione e la diffusione di elementi ed iniziative culturali.

Un soggetto che unendo finanziamenti privati, trasferimenti istituzionali interni ed internazionali, tasse di scopo, tessere sostenitore, e altre forme di finanziamento, ponga alla base del proprio mandato statutario la tutela e la valorizzazione dei manoscritti custoditi e di attribuzione dei codici Isbn, e che generi al contempo flussi di ricavo attraverso attività a pagamento.

Il peso politico potrebbe essere ugualmente gravoso, senza dubbio. Ma la presenza di “sistemi di investimento” potrebbe garantire un ulteriore contrappeso all’interno della compagine di equilibri che attualmente gestisce il Paese: quello dell’interesse internazionale e quello dei cittadini.

Una soluzione che potrebbe risultare alquanto efficace non solo per il contesto di Sarajevo, ma anche in luce di quanto ci si attende avvenga in Ucraina, quando, in un modo o nell’altro, si perverrà ad una condizione di nuova normalità, al fine di evitare che gli interessi politici e i gruppi di pressione agiscano come dei silenziosi censori.

Se da un lato il mondo è sufficientemente abitato da organizzazioni che si occupano di tutelare l’esistenza fisica del Patrimonio Culturale, spesso si assiste ad una generale scarsità di risorse volte a stimolare una risposta in termini di produzione culturale, o in termini di gestione dei servizi minimi.

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Forse l’Europa, che in questo scacchiere risulta sempre più debole, frammentaria, effimera, potrebbe cogliere l’opportunità di sviluppare in questo senso un proprio ruolo. Se gli Usa riuscirono con gli Accordi di Dayton laddove l’Europa aveva fallito, oggi l’Europa può rimediare alle implicazioni negative che proprio quegli accordi hanno generato nella Bosnia Erzegovina.

Per farlo, però, sarebbe necessario comprendere l’importanza sociale e politica della diversificazione delle fonti di finanziamento. Condizione che, forse proprio per il pluralismo che esprime, è parimenti osteggiata dalle forze politiche progressiste (generalmente sospettose nei riguardi dei soggetti privati) e da quelle conservatrici (che non hanno alcun interesse a che ciò avvenga).



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