La falla dell’energia green – Panorama

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Un piccolo granello di sabbia potrebbe inceppare gli ingranaggi del Pnrr e bloccare il flusso di rate miliardarie destinate all’Italia. Piccolo, perché non dovrebbe essere difficile convincere la Commissione a soffiarlo via. Ma anche grande, perché riguarda un settore fondamentale del sistema energetico nazionale: l’idroelettrico, una fonte non inquinante che ha un peso notevole nella produzione di elettricità.

Negli ultimi 12 mesi (dati Terna) le centrali idroelettriche hanno immesso nella rete oltre 54 Terawattora, che rappresentano il 20,2 per cento della produzione elettrica nazionale. Grazie alle sue dighe e agli impianti lungo i fiumi, l’idroelettrico è la prima fonte «green» con una quota del 41,8 per cento sul totale delle rinnovabili. Tra l’altro sempre più strategica con la diffusione del solare, perché può svolgere un ruolo di «batteria» quando c’è un eccesso di produzione di elettricità, se dotata di due bacini e delle pompe per trasportare di nuovo in alto l’acqua.

Ma cosa c’entra il Pnrr con questa preziosa fonte energetica? C’entra perché una serie di decisioni a cascata della Commissione e dei governi italiani, non sempre coerenti, hanno creato un grande pasticcio inserendo la messa a gara delle concessioni idroelettriche tra le condizioni per ottenere le rate del Pnrr e colpendo così gli interessi degli attuali gestori. Alle invocazioni di questi ultimi per un intervento a livello politico ha risposto in particolare Fratelli d’Italia con una proposta di modifica della legge, mentre in Europa il neo-vicepresidente Raffaele Fitto dovrà aprire una trattativa con Bruxelles.

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Tutto inizia nel 1999, quando il governo accorda alla scadenza delle concessioni idroelettriche (che in Italia durano meno che negli altri Paesi europei) un trattamento preferenziale agli operatori concedendogli proroghe automatiche. Una decisione non gradita alla Commissione con cui inizia uno scambio di comunicazioni che sfocia in una raffica di interventi legislativi da parte dell’Italia, norme che però non impediscono l’avvio di una procedura d’infrazione non solo contro il nostro Paese ma anche contro Austria, Polonia, Svezia, Germania e Regno Unito. Il tutto sotto il segno del rispetto del mercato unico e della concorrenza.
Di fronte a questa spada di Damocle, l’esecutivo di Mario Draghi pensa di risolvere la faccenda nel 2022, in sede di legge per la Concorrenza, inserendovi la piena liberalizzazione del settore idroelettrico e includendo la riassegnazione mediante gare delle concessioni tra gli obiettivi vincolanti per il Pnrr. Ma nel frattempo, sempre nel 2021, la Commissione ha archiviato la procedura d’infrazione in considerazione delle caratteristiche peculiari del settore, in Italia così come in altri Stati membri della Ue. In sostanza, ammette Bruxelles, si tratta di una risorsa dove i margini per aumentare la concorrenza sono limitati. Non solo. Anche il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica è intervenuto nella vicenda: nel 2022 il Copasir, presieduto allora da Adolfo Urso, contesta il disegno di legge sulla concorrenza per aver aperto le gare in un settore strategico come quello idroelettrico, a «operatori esteri ma in un regime di non reciprocità poiché gli altri Paesi europei applicano un regime protezionistico in questo ambito».
L’Italia sarebbe infatti l’unica grande nazione europea ad aver liberalizzato il settore, mentre altrove, come in Svezia, Norvegia e Regno Unito, i diritti sull’acqua sono praticamente illimitati e non soggetti a scadenza, in altri, come Austria, Svizzera, Francia, Portogallo, Spagna e Germania, le concessioni hanno una durata molto estesa, che varia dai 30 fino addirittura a 90 anni.

Peccato che la macchina messa in moto da Draghi ormai sia partita e abbia ingolosito le Regioni, che incassano i canoni da parte dei gestori degli impianti idroelettrici e che iniziano ad avviare le prime gare in concomitanza con lo scadere di alcune concessioni. Naturalmente in ordine sparso e con regole diverse grazie ai poteri concessi alle Regioni: la prima a muoversi è la Lombardia che a fine 2023 ha messo a gara alcuni piccoli impianti. Una situazione che sta creando enorme allarme tra le società italiane, che temono di veder ceduti a concorrenti e fondi esteri i loro asset, ottenendo indennizzi ritenuti modesti, oppure di dover pagare canoni più alti mettendo a rischio gli investimenti futuri. All’orizzonte incombe il 2029, quando scadranno due terzi delle concessioni in tutta Italia.
In Italia sono attivi circa 4.500 impianti, distribuiti in gran parte tra Piemonte, Lombardia e Trentino Alto-Adige. Il grosso è nelle mani di otto operatori: dell’intera capacità idroelettrica Enel possiede il 37 per cento, A2A il 10, Alperia il 9, Dolomiti Energia l’8, Edison e Cva il 6 ciascuno, Iren il 3, Acea l’1 per cento. Molte sono centrali vecchie, che necessitano di ammodernamenti ed efficientamenti. Secondo uno studio di Althesys, il solo rinnovamento tecnologico di un terzo dei nostri impianti potrebbe aumentare l’energia generata annualmente quasi del 10 per cento nel giro di pochi anni.

Un altro studio dell’osservatorio The European House-Ambrosetti, commissionato da A2A, sostiene che ci vorrebbero 15 miliardi di euro in dieci anni per rinnovare le centrali, risorse che gli operatori hanno dichiarato di essere pronti a mobilitare. Ci si potrebbe chiedere perché questi investimenti non sono stati fatti prima: i gestori attuali rispondono che gli impianti in genere sono tenuti bene, visto che è nel loro interesse farli funzionare correttamente, mentre le spese per il rinnovamento o per la costruzione di ulteriori opere sarebbero state ostacolate dalla durata limitata o incerta delle concessioni. E perché l’arrivo di nuovi concorrenti dovrebbe essere un problema? Intanto perché, secondo le società che gestiscono le centrali, le gare sono costruite in modo tale da non riconoscere adeguatamente gli investimenti fatti. E poi perché i nuovi gestori potrebbero essere interessati solo a massimizzare i profitti senza tenere conto delle esigenze del territorio: per esempio, quando nel 2022 ci fu la siccità le compagnie idroelettriche rilasciarono acqua per l’agricoltura, sacrificando in parte i propri interessi a beneficio di altri utilizzi.
Paolo Taglioli, direttore generale dell’associazione di categoria Assoidroelettrica, sostiene che «i nostri asset idroelettrici servono a garantire energia a prezzo calmierato all’Italia, un Paese con un’intensità energetica crescente e che è costretto ad importarla. L’idroelettrico serve poi alla nostra industria. Sono stati scritti dei bandi che non prevedono criteri e indennizzi chiari e senza la reciprocità tra Stati. Se svendessimo le nostre centrali idroelettriche, le conseguenze potrebbero essere gravissime. Dobbiamo negoziare con l’Europa e bloccare il meccanismo».

Il problema è che modificare un provvedimento legato ai fondi del Pnrr non è semplice. Così come non è facile convincere le Regioni a rinunciare a un aumento dei canoni, per altro di fatto già realizzatosi in misura rilevante dopo la normativa di regionalizzazione del 2019. Se il primo ostacolo potrà essere superato grazie alle capacità negoziali di Fitto, il secondo si eliminerà garantendo alle Regioni un’invarianza del gettito del canone ragionevole, oppure un prezzo dell’energia più basso per gli utenti del territorio. Una partita complessa in cui sono in gioco miliardi e la strategia energetica nazionale. E che però fa poco clamore, mica come quella dei balneari.





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