Sisma 1693 e altri eventi distruttivi in Italia: ricostruire o delocalizzare?


AUGUSTA – 9 e 11 gennaio 1693, sono le date del catastrofico terremoto del Val di Noto, che causò devastazione e vittime nell’intera Sicilia orientale, colpendo anche Augusta. Riceviamo in esclusiva e pubblichiamo qui di seguito un contributo di dati aggiornati e riflessioni sul presente del geologo Marco Neri, augustano, dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv).

L’11 gennaio ricorre il 332° anniversario del sisma del 1693, di magnitudo Mw 7.3, il più violento e distruttivo accaduto in Italia negli ultimi 1000 anni. Il terremoto devastò la Sicilia orientale provocando almeno cinquantaquattromila vittime e molte decine di migliaia di feriti. La devastazione fu talmente grande che alcune città furono completamente rase al suolo e delocalizzate, ovvero ricostruite in luoghi diversi da quelli antichi, tra cui Noto, Avola, Occhiolà (l’attuale Grammichele), Giarratana, Sortino, Biscari (Acate), Monterosso, Fenicia Moncata (Belpasso).

Dopo quasi trecento anni, il 13 dicembre 1990 un altro sisma distruttivo (magnitudo Mw 5.6) ha scosso la Sicilia orientale, causando 18 vittime e circa 300 feriti. I centri urbani più colpiti furono Carlentini ed Augusta, dove si contarono complessivamente circa quindicimila sfollati. Il governo centrale di allora promosse vari provvedimenti di ricostruzione degli edifici, senza delocalizzazioni, e di assistenza alla popolazione, con modalità di erogazione dei contributi che si sono confusamente dilazionate per decenni. A ben 34 anni dal sisma, nel mese di dicembre 2024 il governo Meloni ha finalmente sbloccato i rimborsi fiscali del triennio 1990-1992. Senza entrare nel merito tecnico della misura a suo tempo adottata dal legislatore, discriminante nei confronti di tutti quei terremotati del 1990 rimasti esclusi dai rimborsi, spicca l’incredibile ritardo con cui si è giunti al termine della vicenda.

Ricordare questi eventi catastrofici può essere, per alcuni, un triste anniversario, ma può rappresentare anche l’occasione per riflettere più in generale sull’esposizione del territorio italiano alla sismicità e sulle possibili azioni di mitigazione preventiva dei danni conseguenti.

Italia, un territorio altamente sismico con cui fare i conti

Dopo il terremoto del 1990, in Italia sono accaduti altri terremoti distruttivi che hanno causato centinaia di morti, migliaia di feriti, decine di migliaia di senza tetto e varie decine di miliardi di euro di danni (Umbria-Marche nel 1997; Molise nel 2002; Abruzzo nel 2009; Emilia Romagna nel 2012; centro-Italia nel 2016-2017; Ischia nel 2017; Etna 2018). In alcuni casi le ricostruzioni post-sisma promosse dai governi che si sono succeduti nel tempo sono sostanzialmente concluse, in altri sono ancora in corso a causa della vastità delle aree colpite e dei danni arrecati. Ad ogni modo, la frequenza di accadimento di tali disastri dimostra almeno due cose: che le calamità sismiche in Italia ricorrono in media ogni quattro-cinque anni, e che occorre pianificare per tempo gli interventi di protezione dai terremoti, adottando nelle ricostruzioni approcci pragmatici che tengano conto della fragilità geologica del territorio italiano.

In tal senso, un esempio virtuoso è quello messo in campo dal Commissario straordinario che si occupa della ricostruzione dell’area etnea colpita dal sisma del 2018, il quale ha promosso azioni finalizzate a ricostruire in sicurezza ed a diminuire sensibilmente danni e vittime conseguenti a futuri sismi.

Sisma Etna 2018, dieci chilometri di fratture

Il 26 dicembre 2018 il fianco orientale dell’Etna è stato scosso da un terremoto di magnitudo Mw4.9, che ha danneggiato 3000 edifici in un territorio vasto oltre 200 chilometri quadrati, abitato da centoquarantamila persone. Oggi, il processo di ricostruzione avviato nel 2020 è a buon punto; tuttavia l’operato del commissario ha dovuto superare alcune problematiche iniziali causate in particolare dal tipo di sisma, che è stato generato da una faglia molto superficiale. Ciò ha provocato la vistosa fratturazione di terreni e manufatti in una fascia di territorio ampia alcune decine di metri ma lunga quasi dieci chilometri, e che ha attraversato aree densamente urbanizzate come quelle di Fleri ed Aci Platani.

Come si ricostruisce dopo un sisma disastroso?

La situazione etnea ha imposto una riflessione iniziale su come e dove ricostruire. Si è dovuto, cioè, affrontare sia il problema dei violenti scuotimenti sismici tipici di questi terremoti superficiali, risolvibile attraverso la costruzione di edifici adeguatamente robusti ed elastici, sia quello delle fratture del suolo che si formano in seguito al movimento dei piani di faglia attivi. In quest’ultimo caso, però, qualsiasi edificio realizzato sopra un piano di faglia attivo crolla inesorabilmente e non esistono, oggi, soluzioni tecniche economicamente percorribili e in grado di contrastare efficacemente questo fenomeno.

In passato, nelle aree colpite da calamità naturali è stato quasi sempre applicato il criterio di ricostruire a qualunque costo “dov’era com’era”, privilegiando la salvaguardia della memoria storica dei luoghi, a prescindere dal livello di pericolosità di quelle zone. Un approccio genericamente condivisibile se si tratta di ricostruire opere di eccezionale pregio storico, artistico, architettonico o di particolare significato religioso e sociale. Nel caso di edilizia residenziale meno pregiata, invece, è lecito chiedersi se è eticamente accettabile incoraggiare la ricostruzione di edifici che rimarrebbero comunque gravemente esposti al rischio di crollo poiché realizzati sopra una faglia attiva, pur tenendo presente il valore affettivo del bene immobile per le persone che lì son vissute per generazioni.

Delocalizzazione: allontaniamo i cittadini dal pericolo

La ricostruzione post-sisma 2018 ha proposto una soluzione a queste domande, successivamente adottata, come principio generale, anche nel corso di altre ricostruzioni in centro-Italia (sisma 2016) e ad Ischia (sisma 2017). All’Etna è stato dapprima mappato il territorio colpito dal sisma, individuando con precisione le zone dove il suolo si è fratturato a causa dell’emersione in superficie del piano di faglia che ha generato il sisma. Attorno a tali fratture sono state circoscritte delle ”zone di rispetto”, ampie almeno 15 metri dai due lati di ogni faglia, all’interno delle quali è lecito attendersi che possano generarsi in futuro ulteriori fratture. A questo risultato si è giunti attraverso la stipula di un protocollo di intesa tra il Commissario straordinario ed il Presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), nonché con la collaborazione di geologi del Genio Civile di Catania e dell’Agenzia nazionale Invitalia.

Per diminuire il rischio di futuri crolli di edifici e vittime, nelle zone di rispetto è stata incentivata la delocalizzazione di cinquantotto fabbricati distrutti dal sisma. I cittadini coinvolti hanno avuto la possibilità di aderire volontariamente al piano di delocalizzazione proposto dal Commissario, ricevendo in cambio un contributo economico proporzionale al valore della casa distrutta dal sisma con il quale hanno potuto ricostruire un nuovo edificio lontano da faglie attive, oppure hanno potuto acquistare un edificio equivalente già esistente ed ubicato in zone sismicamente più sicure.

Riqualificare il territorio con opere geo-compatibili

Le aree sgomberate dagli edifici delocalizzati sono state acquisite gratuitamente al patrimonio pubblico dei comuni, mentre il Commissario per la ricostruzione ha finanziato negli stessi luoghi opere di riqualificazione urbana quali aree verdi attrezzate, parcheggi, strade, piazze e parchi giochi. In questo modo è stata diminuita la densità abitativa in zone estremamente pericolose, restituendo alla collettività opere geo-compatibili che hanno arricchito di valore economico e sociale il territorio e la comunità che vi abita.

Parole d’ordine: informare, condividere, dialogare

Tuttavia, nessun processo di delocalizzazione avrebbe mai avuto successo senza la piena condivisione della popolazione coinvolta. È di importanza cruciale che le persone siano rese consapevoli del contesto geologico in cui vivono e delle misure da adottare per mitigare gli effetti negativi di eventi naturali potenzialmente disastrosi. A tal fine, la struttura commissariale di governo ha costantemente incoraggiato il dialogo diretto ed empatico con i terremotati, sia in presenza che on-line durante la crisi pandemica da COVID-19. E’ stato aperto uno sportello del cittadino attraverso cui chiedere informazioni e aiuto nella compilazione di documenti; sono stati organizzati numerosi incontri e dibattiti pubblici coinvolgendo i comuni, gli ordini professionali (ingegneri, architetti, geometri, geologi), i club service locali (Kiwanis International, Lions, Rotary) ed i Comitati dei Terremotati sorti spontaneamente dopo il sisma; sono state concretizzate collaborazioni con l’INGV e con l’Università di Catania per approfondire la percezione del rischio da parte delle popolazioni coinvolte dal terremoto.

E quindi, si può sempre ricostruire o a volte è meglio delocalizzare?

L’esperienza della ricostruzione post-sisma 2018 dimostra, nel suo complesso, che la ricostruzione delle case e delle infrastrutture danneggiate rappresenta l’ovvio obiettivo principale da perseguire dopo un terremoto distruttivo. Tuttavia, laddove la ricostruzione negli stessi luoghi dovesse risultare troppo pericolosa per i cittadini, è doveroso incentivare la delocalizzazione delle loro abitazioni ricollocandole in aree più sicure. Di conseguenza, di pari passo alla ricostruzione fisica degli immobili occorre promuovere la ricucitura del tessuto sociale e relazionale, sia famigliare che di comunità, fornendo ai cittadini terremotati un’assistenza psicologica tempestiva, incentivando il dialogo tra istituzioni e cittadini per aiutarli a superare lo scoramento causato dalla perdita irreparabile di punti di riferimento fondamentali per la loro esistenza.

Per approfondire

Benadusi, M., Mattia, M. and Lo Bartolo, V. (2024). Faglie di rischio. Delocalizzazioni, spaesamenti e appaesamenti alle pendici del Monte Etna. Antropologia Pubblica, 10(2), pp. 55-92

Neri, M. and Neri, E. (2024). “Etna 2018 earthquake: rebuild or relocate? Applying geoethical principles to natural disaster recovery planning”, Journal of Geoethics and Social Sciences, 2 (Special Issue), pp. 1–28

Marco Neri

Dirigente di ricerca dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia – Ingv









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