Senza scelte radicali la crescita sostenibile resta un’utopia

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Che cosa accomuna i ghiacci perenni dell’Artico alle aree più calde del pianeta? La loro esposizione agli effetti del riscaldamento globale, e ancor di più, le conseguenze disastrose che questi effetti locali avrebbero sul resto del pianeta. Oltre un terzo del carbonio della Terra si trova proprio nel “permafrost” artico. L’aumento delle temperature ha già cominciato a scalfire questi ghiacci, rischiando così di liberare negli oceani e nell’atmosfera enormi quantità ci gas serra come anidride carbonica e metano, pericolosamente acidificando i mari e accelerando ulteriormente il cambiamento climatico.

Mentre la desertificazione determina sia una crescente “migrazione climatica”, sia la perdita di biodiversità in territori sempre più ampi. Fenomeni, questi, che a loro volta accelerano la desertificazione stessa, sempre più lontano dalle zone equatoriali. Una volta che si comincia a pensare seriamente al riscaldamento globale, è difficile pensare ad altro che sia più importante.

La “trappola malthusiana”

Il rafforzamento reciproco e la probabile irreversibilità di questi (e altri) fenomeni presentano difficoltà di interpretazione per chi li studia ed elabora soluzioni. La maggior parte degli economisti, per esempio, considera il progresso tecnologico e la crescita economica fattori essenziali per affrontare questo tipo di crisi. L’esempio storico, quasi assurto a parabola evangelica, riguarda il superamento della “trappola malthusiana”.

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Alla fine del XVIII secolo, lo studioso inglese Thomas Malthus teorizzò l’impossibilità di un miglioramento sostenuto delle condizioni di vita di una popolazione. Un qualsiasi aumento della produttività che sollevasse le condizioni di vita oltre il livello di sussistenza avrebbe portato la popolazione a consumare e procreare di più – una visione moralistica del volgo consumatore e fornicatore che, come documenta Clara Mattei nel suo L’Economia è Politica, avrebbe accomunato molti economisti liberali del XX secolo, da Maffeo Pantaleoni a Luigi Einaudi. La crescita demografica si sarebbe fermata al punto in cui il reddito pro-capite fosse tornato al livello di sussistenza.

Con la rivoluzione industriale, tuttavia, i progressi scientifici e tecnici hanno reso possibile un’innovazione tecnologica “permanente”, rapida e sistematica tale da migliorare la produttività più velocemente di quanto un aumento della popolazione potesse ridurla. Il sostenuto cambiamento tecnologico ha contribuito a migliorare le condizioni di vita medie anche a fronte dell’esplosione demografica del XX secolo.

L’applicazione al caso del cambiamento climatico è però problematica per almeno due motivi. Primo, le innovazioni tecnologiche che dovrebbero contribuire a ridurre le emissioni inquinanti e riscaldanti, sono, al momento, lontane da essere applicabili su larga scala, e il loro stesso sviluppo è spesso nocivo sul pianeta. La produzione e diffusione di auto elettriche, per esempio, è più lenta di quanto si prevedesse, e la produzione delle batterie che le alimentano è inquinante e richiede lo sfruttamento di grandi quantità di litio e cobalto, la cui estrazione ha impatto ambientale e sociale negativo, a partire dai luoghi in cui si trovano le miniere, come il Congo e diversi paesi dell’America Latina.

Viaggiare in aereo continuerà a essere tremendamente inquinante: velivoli con minore impatto ambientale non sono all’orizzonte. Altre soluzioni mirabolanti come la geo-ingegneria sono una chimera. Insomma, la “crescita sostenibile” (come i vari “Green New Deals” promettono) potrebbe rivelarsi un ossimoro. Secondo, poiché gli effetti del cambiamento rischiano di essere in gran parte irreversibili, aspettare che innovazione e crescita facciano il loro corso potrebbe essere un lusso fuori portata.

Nel suo saggio Il Capitale nell’Antropocene, diventato un caso editoriale, il filosofo Saito Kohei invita a considerare che potrebbe essere troppo tardi per affidarsi a soluzioni di compromesso e attendiste, insomma a un “meno peggio” che al meglio ritardi gli effetti del cambiamento climatico.

Lo studioso giapponese identifica possibili configurazioni di una società futura, a seconda delle priorità che si preferiranno. Una direzione è quella di privilegiare la crescita economica come motore primo di benessere, contando sulle dinamiche del mercato e su uno stato che promuova lo “sviluppo sostenibile”.

Ma come sottolineato poco fa, ciò potrebbe alimentare il cambiamento climatico. In questo scenario Kohei prevede, come altri osservatori, un impatto sperequato dei danni. La maggioranza delle persone sarebbe fortemente danneggiata, impoverita e costretta a migrare. Mentre una élite di super ricchi si riparerebbe in zone meno esposte ed enclave segregate (una versione più realistica dell’assurda ed eugenetica promessa di Elon Musk e suoi simili di portarsi pochi eletti su Marte e lasciare i poveracci nel caos). Kohei chiama questo esito “fascismo climatico”.

Il “maoismo climatico”, invece, imporrebbe la riduzione delle attività inquinanti, attraverso la pianificazione e la limitazione delle libertà civili. Un esempio recente di questo approccio viene dalla gestione cinese della pandemia di Covid19. Il potere centrale non si è lasciato sfuggire l’opportunità di restringere le libertà dei cittadini, aggiungendo a quelle di espressione delle proprie idee quella di movimento, anche in aree solo minimamente toccate dal morbo. Così stabilendo una nuova normalità da mantenere il più possibile anche nel periodo post-pandemico. Personalmente, eviterei.

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In assenza di un forte potere centrale, e in regime di laissez faire economico, la combinazione di crisi climatica ed estrema disuguaglianza porterebbero, e questo è il terzo scenario, a un conflitto e “stato di barbarie” permanenti.

Democrazia e beni comuni

Che fare, allora? Esiste una quarta via? Campagne per un consumo “responsabile”, oltre a caratterizzarsi per un’alta dose di moralismo, manterrebbero la stessa organizzazione sociale e della produzione, che prima o poi tornerebbe a livelli insostenibili per il pianeta. La proposta di Kohei parte invece proprio da una riorganizzazione della produzione che conduca naturalmente a un equilibrio fra attività umana e biosfera. Un pilastro di questo modello è ristabilire la natura di beni comuni per beni e servizi come l’acqua e la terra, e la predilezione per tecnologie “aperte”, come il software “open source” o le fonti di energia basate su risorse comuni e rinnovabili, invece che “chiuse”, ad esempio protette dai brevetti.

Un secondo elemento è la gestione più democratica e partecipativa dei processi produttivi, per esempio attraverso cooperative e forme di codeterminazione. In questo modo rallenterebbero i processi decisionali e, con essi, la produzione, così limitando l’impatto sul pianeta. Inoltre, la necessità di un consenso diffuso porterebbe a concentrarsi sulla produzione di beni e servizi essenziali, rispetto a quelli superflui e voluttuari. Le decisioni più condivise tenderebbero poi a essere più attente al benessere delle generazioni future, ridurrebbero le disuguaglianze, e favorirebbero la pace sociale. Tutto ciò non per volere di un potere centrale, né di una autorità morale, ma come esito “organico” di decisioni collettive e decentralizzate.

Questa pars construens del saggio di Kohei è la più debole, tuttavia, e forse risente delle fascinazioni per il pensiero utopistico a cui l’autore stesso si è detto ispirato. Discutibili non sono tanto le soluzioni proposte, peraltro non così diverse da quelle di altri studiosi come Thomas Piketty in Capitale e Ideologia, o dal lavoro di Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia, sulla gestione delle risorse comuni. O da esperienze recenti come quello del collettivo di fabbrica alla (ex) GKN di Firenze, basata su azionariato popolare e riconversione ecologica e democratica della produzione. Quanto invece l’implicita facilità e “organicità” che Kohei prevede nel materializzarsi di questi scenari. Temo che, nell’élite capitalista contemporanea, la propensione alle decisioni condivise e al contemperamento degli interessi siano piuttosto geni recessivi. 

D’altra parte, nel dibattito intellettuale ognuno fornisce uno spunto, sul quale sperabilmente altri continueranno a costruire, se quel contributo è meritevole di attenzione. E quello di Kohei lo è per almeno tre motivi.

Primo, la chiarezza di caratterizzare l’evoluzione del clima come a un passo dall’irreversibilità; e quindi lo stimolo a superare paradigmi metodologici e concettuali del passato, a cui, per convinzione, comodità o adesione a certi interessi, gli studiosi a volte si arroccano.

Secondo, l’individuazione del legame fra crisi climatica e disuguaglianza economica, perché la logica che porta allo sfruttamento irresponsabile delle risorse è simile a quella che, col mantra dell’efficienza e della produttività, scarica i costi sui più deboli.

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Terzo, l’onestà intellettuale di concludere che se vogliamo davvero salvaguardare le generazioni a venire ed evitare alla maggior parte dei nostri discendenti un futuro da migranti climatici non dobbiamo spaventarci di contemplare che la continua crescita economica potrebbe non essere indispensabile per un maggior benessere collettivo.

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