In un nuovo anno denso di rischi l’Ue è chiamata a un grande salto di qualità

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Prima di tutto, desidero augurare ai lettori e alle lettrici della Newsletter ASviS un buon 2025. Sono auguri di cui avremo bisogno, visto che anche quello appena iniziato non appare un anno facile, come non lo è stato quello passato. Infatti, le guerre, le tensioni internazionali, le divisioni politiche, le difficoltà economiche e sociali, la crisi climatica non spariranno da sole soltanto perché abbiamo salutato il 2024 “anno bisesto, anno funesto”. Per ottenere risultati significativi sulle tematiche appena ricordate serve ben altro che l’arrivo di un nuovo anno, cioè tanto impegno, da parte di tutte tutti, per cambiare quello che va cambiato nella direzione auspicata.

Ovviamente, tutti vorremmo che il mondo e la nostra vita cambiassero in meglio e certamente nel corso delle scorse settimane abbiamo passato qualche momento a riflettere sull’anno passato e a fare qualche buon proposito per quello appena iniziato. Su questo tema mi ha fatto riflettere l’articolo pubblicato su Il Post di giovedì 2 gennaio dal titolo “Perché è così difficile rispettare i propositi di inizio anno”. La tesi, basata su studi di psicologi e neuroscienziati, è che:

“Il problema principale dei propositi di inizio anno è che si affrontano con slancio e convinzione, ma senza alcuna collaborazione speciale da parte del corpo. Non succede niente di magico, il primo gennaio, e per apportare un cambiamento nella propria vita serve grosso modo lo stesso impegno necessario in altri momenti dell’anno: spesso ne serve di più, anzi … La difficoltà nel rispettare i propositi di inizio anno deriva spesso anche dal fatto che tendiamo a porci obiettivi poco realistici perché ne siamo naturalmente attratti … Da un lato attribuiamo molto valore agli sforzi compiuti per ottenere un determinato risultato, dall’altro il nostro cervello elabora continuamente strategie per ridurli, probabilmente perché sono costosi in termini di risorse metaboliche”.

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Tutto ciò vale a livello individuale, ma vale anche a livello collettivo. Basti pensare ai discorsi o alle conferenze stampa che i leader politici fanno alla fine o all’inizio dell’anno (in Italia abbiamo avuto lo splendido messaggio del Presidente Mattarella del 31 dicembre, mentre stamattina c’è stata la conferenza stampa della presidente del Consiglio), nei quali essi tracciano un bilancio dei risultati ottenuti o delineano le azioni che intendono intraprendere. Ma anche a quelli pronunciati nei party di Natale organizzati nelle imprese, durante i quali immancabilmente il “capo” dice ai suoi dipendenti quanto sono importanti, salvo poi cercare di comprimerne gli stipendi o di licenziarli. Solo che poi, bisogna passare dalle parole ai fatti, ed “è qui che casca l’asino” e si alimenta la già scarsa fiducia delle persone, non solo in Italia, nelle istituzioni. 

Come riportato nel Rapporto ASviS di ottobre 2024, secondo l’indagine condotta per conto di Earth4All e Global Commons Alliance nei Paesi del G20, solo il 39% degli intervistati ritiene che il proprio Governo prenda decisioni che beneficiano la maggioranza della popolazione; il 37% non crede che sia in grado di prendere decisioni di lungo termine che beneficeranno la maggioranza della popolazione in 20-30 anni; il 65% crede che il sistema politico e quello economico richiedano cambiamenti significativi; l’81% considera la democrazia il migliore sistema politico possibile, ma il 40% dichiara di apprezzare leader che non hanno bisogno del Parlamento per decidere.

In realtà, l’anno che si è appena avviato porterà (probabilmente) alcuni cambiamenti significativi che ci riguardano sia come cittadini del mondo, sia, e soprattutto, come europei e italiani. Fa parte del primo gruppo l’avvio del secondo mandato presidenziale di Donald Trump. Confortato dal fatto di essere stato eletto grazie ad una “doppia maggioranza” (voti elettorali e, anche se di poco, voti popolari), Trump ha composto una squadra di governo in cui compaiono diversi esponenti “di rottura” rispetto all’establishment e ha già “esternato” su varie tematiche, assumendo posizioni anch’esse “di rottura” non solo rispetto a quelle tenute da Biden, ma anche alla tradizionale politica estera americana (ad esempio, dopo le recenti dimissioni del premier canadese Trudeau ha subito suggerito che il Canada diventasse il 51° stato americano e due giorni fa ha parlato di possibili annessioni o acquisti di Panama e della Groenlandia).

Nelle settimane scorse Trump ha anche anticipato alcune delle sue prime mosse con possibili implicazioni per il resto del mondo, dall’uscita dagli Accordi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico (cosa che aveva già fatto nel primo giorno del suo primo mandato) al possibile abbandono dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dall’imposizione di dazi su merci provenienti dalle aree del mondo che presentano un avanzo commerciale nei confronti degli Stati Uniti (tra cui l’Unione europea) alla riduzione dell’impegno militare nella Nato a fronte di un aumento della spesa degli altri membri dell’Alleanza, europei in primis. Questi primi passi confermano che Trump non ama le sedi multilaterali, a partire dall’Onu, ma privilegia un approccio bilaterale (in cui, tipicamente, vince sempre il più forte), il che non aiuterà il mondo a risolvere i grandi problemi (come quello climatico) che richiedono per definizione accordi globali, o quasi. 

Presumibilmente, l’approccio di Trump alla politica internazionale non aiuterà a ottenere risultati significativi negli appuntamenti previsti per il 2025, dalla Conferenza Onu sulla finanza per lo sviluppo sostenibile (Siviglia a luglio) al Summit sullo sviluppo sociale (Doha a novembre), dalle Cop sul clima, sulla desertificazione e sulla biodiversità alla negoziazione del nuovo Trattato sulla plastica. Basti pensare che, nella conferenza di Siviglia, si dovrebbe discutere di come rispondere alle richieste del Segretario Generale dell’Onu di: garantire uno “stimolo” per il conseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 di almeno 500 miliardi di dollari l’anno (a fronte di un fabbisogno stimato tra 2.500 e 4mila miliardi di dollari); aumentare gli aiuti allo sviluppo da parte dei Paesi industrializzati per raggiungere lo 0,7% del reddito nazionale lordo; accrescere la capitalizzazione delle banche multilaterali; affrontare con decisione la crisi del debito dei Paesi in via di sviluppo; assicurare una maggiore rappresentanza di questi ultimi e di quelli emergenti (a partire dalla Cina) nelle grandi istituzioni finanziarie internazionali, ad esempio nella Banca Mondiale, il cui presidente è storicamente espresso dagli Stati Uniti; riformare il Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Quelli appena ricordati sono solo alcuni dei temi che si ritrovano nel “Patto sul futuro” firmato all’Onu nel settembre scorso, con il voto favorevole degli Stati Uniti. Ma il Patto prevede anche l’impegno dei Paesi membri ad affrontare i rischi per la coesione sociale derivanti dalla misinformazione, dalla disinformazione e dall’incitamento all’odio veicolato dai social media e basta vedere il modo in cui Elon Musk gestisce X e il recente annuncio di Mark Zuckerberg sulla sospensione del fact checking su Instagram e Facebook per capire che gli Stati Uniti non faranno molto al riguardo, anzi. Inoltre, l’Accordo Digitale Globale che è parte del Patto impegna i Paesi a perseguire cinque obiettivi: colmare i divari e le disparità digitali; ampliare l’inclusione e garantire il rispetto dei diritti nell’economia digitale; promuovere uno spazio digitale inclusivo, aperto e sicuro; assicurare una governance equa e interoperabile dei dati; introdurre misure di governance internazionale dell’intelligenza artificiale, affinché questo strumento operi a beneficio dell’umanità. È poi prevista l’istituzione di un gruppo scientifico internazionale multidisciplinare indipendente sull’intelligenza artificiale (sul modello dell’Ipcc sul clima) per promuovere la comprensione scientifica dell’impatto, dei rischi e delle opportunità per l’economia e la società dovute alla rivoluzione digitale. Alla luce delle recenti affermazioni del duo Trump-Musk (cioè l’uomo più potente del mondo e quello più ricco del mondo) possiamo facilmente immaginare quanto gli Stati Uniti si impegneranno nella direzione indicata dal Patto. 

Ma c’è un altro aspetto della nuova amministrazione americana che merita attenzione. Infatti, in un articolo pubblicato il 20 novembre 2024 sul World Street Journal, Elon Musk e Vivek Ramaswamy, i futuri capi del neocostituito Dipartimento dell’efficienza governativa (Doge), spiegano la filosofia che seguiranno per tagliare di 2mila miliardi di dollari la spesa pubblica. In breve, prevedono di smantellare la legislazione amministrativa, cioè la “giungla” di leggi, regolamenti, direttive ecc. che non sono state emanate dal Presidente o dal Congresso, ma da quelli che essi chiamano “burocrati”, i quali, non essendo eletti, hanno oltrepassato i loro limiti, definendo una quantità infinta di regole che nessun politico in realtà ha deciso. Insieme a tali atti i due contano di tagliare in proporzione anche il personale delle varie agenzie e ministeri che a quel punto “non avrà nulla da fare”.

Nella “nuova” logica, chi è stato votato ha tutto il potere, compreso quello di cancellare ciò che l’apparato amministrativo ha deciso indipendentemente dal potere politico. Come ho avuto modo di dire in un recente convegno, e come sta emergendo da diversi articoli e volumi, l’approccio di Musk intende determinare un profondo cambiamento nel funzionamento di uno Stato liberale e democratico come gli Stati Uniti. Peraltro, uno degli elementi chiave degli Stati democratici moderni è che i dati statistici sono di tutti ed è per questo che la statistica è considerata un pilastro della democrazia, in quanto essa consente (teoricamente a tutti) di valutare le scelte e le politiche pubbliche sulla base di dati affidabili. Vedremo come il nuovo corso politico si relazionerà con l’indipendenza della statistica ufficiale, ma non scordiamoci che, quando Margaret Thatcher diventò Prima Ministra inglese, sospese le statistiche sulla povertà sostenendo che, visto che la riduzione della povertà non era un obiettivo del governo, non avrebbe avuto senso spendere soldi pubblici per rilevare qualcosa senza importanza. Analogamente, con Ronald Reagan il Senato mise il veto allo sviluppo delle statistiche ambientali all’interno dei conti nazionali e lo stesso Trump, nel corso del suo primo mandato, dettò la regola per cui la pubblicazione di dati ambientali da parte dell’apposita Agenzia federale doveva essere autorizzata esplicitamente dal suo direttore, da lui nominato, in violazione dei Principi fondamentali della statistica ufficiale approvati dall’Onu.

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Dal canto suo, anche l’Unione europea dovrà gestire un nuovo ciclo politico denso di annunci e aspettative, e dovrà dimostrarsi in grado di fare un grande salto di qualità. Le politiche europee avviate nella precedente legislatura 2019-2024 dovranno essere attuate nei prossimi anni integrandosi nella maniera più coerente ed efficace possibile con il quadro degli orientamenti politici 2024-2029 sui quali Ursula von der Leyen è stata rieletta presidente della Commissione europea. Si tratta di un’agenda complessa e irta di potenziali ostacoli anche a causa di una maggioranza parlamentare che ha già mostrato forti eterogeneità nei primi mesi della nuova legislatura. Nel Rapporto ASviS 2024 è stato costruito una sorta di “scadenzario europeo” per i prossimi due anni, dal quale emergono tre categorie di azioni: la chiusura di alcuni iter legislativi avviati nel precedente mandato legislativo, che richiede un accordo tra Parlamento e Consiglio europei; gli adempimenti, da parte della Commissione e degli Stati membri, previsti dalle direttive e dai regolamenti già approvati; la trasformazione degli orientamenti politici 2024-2029 in atti concreti.

Le scadenze più prossime prevedono la presentazione di nuovi quadri strategici (alcuni dei quali dovrebbero essere adottati dalla Commissione nei primi 100 giorni di mandato) tra cui: il “Patto per l’industria pulita”, la “Visione per l’agricoltura e l’alimentazione”, il “Patto per rafforzare il dialogo sociale”, il “Libro bianco sulla difesa europea” e la semplificazione degli obblighi di rendicontazione (compresa quella di sostenibilità) per le piccole-medie imprese. Vi sono poi atti di più complessa elaborazione (che prevedono anche un approfondito processo consultivo con la società civile), quale la definizione di un nuovo Piano d’azione per il Pilastro europeo dei diritti sociali. Ma anche a livello di Stati membri diversi sono gli adempimenti attesi nel primo semestre del 2025, quali la mappatura delle aree per le energie rinnovabili, l’elaborazione del piano sociale per il clima e la predisposizione del piano di ristrutturazione per gli edifici a lungo termine.

Nel 2025 l’Unione europea dovrà anche affrontare dossier “interni”, cioè relativi al suo funzionamento, come la struttura del prossimo bilancio pluriennale, le regole di governance (estensione del voto a maggioranza, rafforzamento del Parlamento, ecc.), il rafforzamento della difesa comune e della politica estera europea, il funzionamento delle nuove regole fiscali, ecc. Ovviamente, le decisioni dell’amministrazione americana si rifletteranno anche sull’Unione europea, specialmente per ciò che concerne l’eventuale imposizione di dazi sulle merci europee, la guerra in Ucraina e la distribuzione delle spese militari. Ma Ue e Usa si confronteranno (con posizioni di partenza molto diverse) anche su molti altri dossier, comprese l’organizzazione e il funzionamento dell’Onu e delle istituzioni finanziarie internazionali, i negoziati climatici, e così via.

Tutti i Paesi dell’Unione, compresa l’Italia, saranno chiamati a definire le proprie posizioni negoziali sia sulle tematiche internazionali che su quelle europee. La nascita di nuovi governi in alcuni Paesi europei (specialmente in Germania e in Austria), la debolezza dei governi esistenti in altri (ad esempio, in Francia), così come la capacità negoziale dei presidenti della Commissione europea, del Consiglio europeo e del Parlamento europeo, nonché la coesione delle forze politiche che siedono in quest’ultimo saranno fattori che influiranno significativamente sull’esito dei negoziati.

Come detto all’inizio, abbiamo bisogno di una robusta dose di auguri per affrontare un anno denso di rischi, ma anche di potenziali opportunità, quali quelle derivanti dalla conclusione (o almeno di tregue) dei conflitti in essere in varie parti del mondo, a partire dall’Ucraina e il Medio Oriente. Purtroppo, una facile previsione è che il 2025 non vedrà una rivoluzione in tema di politiche fiscali a favore di una maggiore equità, come indicato dal recente G20 a presidenza brasiliana. Eppure, come segnala il Rapporto del Pew Research Centre pubblicato oggi, più della metà (54%) della popolazione residente nei 36 Paesi oggetto della ricerca ritiene che le disuguaglianze tra ricchi e poveri siano un gravissimo problema e il 30% che sia un problema. Il 60% ritiene poi che i ricchi abbiano un’influenza eccessiva sulla politica (opinione prevalente tra chi si considera “di sinistra”, ma condivisa anche di chi si sente “di destra”) e ben il 57% ritiene che i figli saranno in condizioni economiche peggiori dei genitori, con punte dell’81% in Francia, del 79% nel Regno Unito, in Italia e in Australia, del 78% in Canada, del 77% in Giappone, del 75% in Spagna e del 74% negli Stati Uniti. I più preoccupati per il problema della disuguaglianza tra ricchi e poveri a livello globale vivono in Germania, Grecia, Argentina e Turchia (oltre il 90% dei rispondenti), mentre i preoccupati per le disuguaglianze tra uomini e donne rappresentano il 62% della popolazione coinvolta nella rilevazione, con punte dell’84% in Francia e dell’80% in Colombia (in Italia, 72%). Interessante è anche il fatto che l’Italia presenti la seconda più alta percentuale (88%), dopo l’Ungheria, di persone convinte che la disuguaglianza dipenda principalmente dalla condizione della famiglia di origine, un’idea espressa principalmente da persone “di sinistra” (ad esempio, negli Stati Uniti il 58% di queste ultime hanno questa opinione a fronte del 21% di quelle di destra).

Anche nel nuovo anno l’ASviS continuerà nel suo impegno per affermare i valori dello sviluppo sostenibile dal punto di vista economico, sociale, ambientale e istituzionale, come insegna l’Agenda 2030. E se dovremo affrontare venti contrari, o ancora più contrari di quelli che già soffiano, proveremo a “timonare” sfruttando tutte le condizioni favorevoli, ma avendo sempre come riferimento quei valori di giustizia, all’interno dell’attuale generazione e tra generazioni, alla base del concetto di sostenibilità. 

Di Enrico Giovannini

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Copertina: ANSA (2024)



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