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(Riccardo Schiroli) – Quella che “gli americani pensano solo ai bilanci” è una sonora sciocchezza. Lo è perché, in tutta evidenza, non esiste un club calcistico (gestito da americani o meno) che distribuisca dividendi. Lo è, soprattutto, perché non esiste successo economico, nello sport, che non passi dal successo sportivo.
Sono, per la verità, il primo ad esprimere perplessità sui modelli di sport business che le leghe americane (per prima la NBA di basket, a seguire la NFL di football e per certi versi anche la MLB di baseball) hanno portato al successo. Si tratta di modelli nei quali succede che prosperino i classici “perdenti di successo”. Come potrebbe essere, per rendere concreto l’esempio, una squadra italiana di calcio che arriva ripetutamente terza in campionato, tra le prime 8 di Champions League e le prime 4 di Coppa Italia, ma senza vincere mai alcun trofeo. Ci torneremo.
A partire dalla legge 586 del 18 novembre 1996, è stato introdotto lo scopo di lucro per le società sportive. Significa che queste società (di persone o di capitali, ma visto l’ammontare di rischio, si tratta esclusivamente di società di capitali, con i soci che rispondono solo per l’ammontare del capitale impegnato) devono redigere bilanci con stato patrimoniale, conto economico e nel rispetto del codice civile.
Molti commentatori di calcio sono ancora fermi ai bilanci delle società di calcio pre 1996 e, in molti casi, anche pre 1981, data che coincide con il varo della legge sul professionismo sportivo (o legge 91). I bilanci vengono presentati come quelli di una associazione sportiva classica. Ovvero con un bilancio preventivo e un consuntivo e un saldo attivo o passivo per il mercato. A questa concezione arcaica, e a una certa abitudine a commentare i conti pubblici, si devono commenti tipo quelli che riguardano “i tesoretti” con cui le società si presentano “sul mercato”.
Per esaminare i conti di una società, bisogna, innanzi tutto, familiarizzare con il conto economico, ovvero costi e ricavi. C’è un dato che tecnicamente si chiama EBITDA (acronimo che significa guadagni prima di calcolare interessi, tasse e ammortamenti) e che dà una buona idea della gestione operativa di una qualsiasi società. Per intenderci, quasi tutte le società di calcio italiane e buona parte di quelle che militano nella Premier League inglese e nella Liga spagnola, presentano un EBITDA drammatico. Che porta poi a risultati di esercizio disastrosi, una volta che nel conto si mettono le altre voci.
Banalizzando, significa che quasi tutte le squadre di calcio spendono più di quello che introitano. Che non è ovviamente bene. Nemmeno se questo porta a vincere trofei.
L’amministratore delegato del Milan, Giorgio Furlani, ha spiegato agli studenti della Harvard Business School che la prima volta che ha preso visione dei conti del Milan (gestione Yonghong Li), la società perdeva dai 10 ai 15 milioni di euro al mese. Come dato può far paura, ma il Parma di Calisto Tanzi o l’Inter di Zhang hanno fatto ben di peggio. E la Juventus è, a oggi, nella stessa situazione.
Essere una società “a fine di lucro”, non è di per sé garanzia che si realizzerà un utile, ovviamente. Ma il “lucro” dovrebbe essere il fine. Quindi, in caso di perdite, gli azionisti le dovrebbero ripianare, adottando nel contempo strategie per migliorare l’EBITDA di cui sopra.
Se vogliamo dirla tutta, il “fine di lucro” non sarebbe la forma ideale per una società di calcio. Che ha come scopo sociale quello di vincere partite e, se va bene, campionati. Lo diceva Victor Uckmar (1925-2016), che nel 1996 era presidente della COVISOC, l’organo della Federazione che ha il compito di vigilare sui bilanci. Venne sbertucciato da tutti. Anche dal sottoscritto.
All’epoca mi ero lasciato convincere dai Berlusconi e dai Tanzi, che predicavano ai quattro venti “cosa vuoi che sia per un gruppo come il mio perdere qualche decina di miliardi all’anno”.
Berlusconi aveva abbracciato il modello di business un decennio prima della legge 586. Negli anni ’90, il suo Milan era largamente il club che fatturava di più in Europa. Si parla di 200 miliardi del vecchio conio. Ed è bene sottolineare che oggi 100 milioni di euro sono il fatturato da squadre di secondo piano. Allora valevano quasi il doppio del budget della Juventus.
Berlusconi ha creato un meccanismo pericoloso: il suo club spendeva in base all’ambizione del suo presidente. Nello stesso solco si è messo Calisto Tanzi con il Parma. Ma se quello di Berlusconi era un modello che non poteva durare (e infatti, non appena Mediaset perse la capacità di iniettare denaro a piacimento, venne ridimensionato), quello di Tanzi era proprio folle.
Arsene Wenger, ex allenatore dell’Arsenal di Londra, nella sua biografia parla di squadre che “spendevano soldi che non avevano”. Si tratta di un modo un po’ primitivo di esprimersi. Io preferisco dire che spendevano al di sopra dei propri mezzi. Perché spendere soldi che non si hanno, ci sta. Ad esempio, prendendoli a prestito. Lo abbiamo fatto tutti, penso, di “rinunciare a consumi futuri per avere oggi maggiore capacità di spesa”. Acquistando l’auto o addirittura la prima casa.
A livello di business, lo ha fatto Netflix, che continuava a investire pur perdendo vagonate di dollari, ma trovando sempre finanziatori pronti a sostenere la visione.
Il punto è che i soldi sono un bene finito. E anche una entità molto concreta. Qualcuno alla fine deve metterceli. Il Cavalier Tanzi ha fatto un buco che, all’epoca, era pari al PIL della Serbia. Si può capire che quello che ha combinato, con la gestione della squadra di calcio, sia passato inosservato. Ma la sola idea di spendere per lo stipendio di un giocatore la cifra che la squadra incassa in abbonamenti è sostanzialmente delirante.
Chi commenta il calcio in Italia parla di soldi come se trattasse di banconote del Monopoli. Della serie: quando li ho finiti, faccio un giro al banco e ne raccatto un altro po’. O m’invento una plusvalenza o una formula creativa con prestito biennale e successivo pagamento a rate del riscatto (tutto il mercato del quotatissimo Giuntoli alla Juventus, per dire). E chi commenta il calcio in Italia dà credito alle follie, anzi, le giustifica pure. Quando la Juventus mise sotto contratto Cristiano Ronaldo, che non si poteva assolutamente permettere, la stampa mainstream fece a gara a calcolare come il costo dell’acquisto lo avrebbero ripagato le magliette con il numero 7 vendute a milioni. Come se la Juventus producesse direttamente le magliette.
Chi commenta il calcio italiano è anche molto sensibile alla bocca che pronuncia le parole. Beppe Marotta, che ha nel curriculum aver ridotto in stato semi fallimentare Sampdoria, Juventus e poi Inter, è un intoccabile. Sia chiaro, i suoi progetti sportivi sono stati spesso vincenti. Ma c’è il piccolo particolare che non se li sarebbe potuti permettere.
Quando dal lavoro della Harvard Business School, che ho già citato, è stata estrapolata una dichiarazione di Gerry Cardinale (fondatore del fondo RedBird e quindi proprietario del Milan) che diceva, più o meno, “voglio vincere, ma in maniera intelligente” e faceva riferimento all’Inter “che ha vinto”, poi ha fatto “bankrupt”, la stampa mainstream ha tradotto “bankrupt” con “bancarotta”, che in italiano è un termine che fa riferimento alla Legge sul Fallimento, quindi al Codice Penale, ma in questo caso andrebbe tradotto con “è diventata insolvente” e poi si è scatenata contro Cardinale. Ma come si permette? Contro Beppe de Noantri?
“Insolvente” è proprio quello che l’Inter è diventata. Tanto che Mr Zhang ha perso il controllo della società a favore di Oaktree. Fondo verso il quale si era indebitata per finanziare la gestione corrente (il famoso EBITDA non lo avevano guardato…).
Sempre la stampa mainstream, nel momento più drammatico della gestione di Andrea Agnelli alla Juventus, aveva presentato il bond lanciato dalla Juventus come “denaro da investire sul mercato”. Un bond è un debito: si tratta di soldi che vanno restituiti, aggiungendo gli interessi.
Il giornalista di Repubblica Enrico Currò sta cercando da mesi di dimostrare che Gerry Cardinale non è il vero proprietario del Milan. Cardinale ha avuto accesso a un cosiddetto “vendor loan”. E’ un po’ quello a cui accede chi compra una FIAT a rate: un prestito dalla FIAT stessa (o finanziaria di proprietà di Exor). Cardinale non ha fatto prestiti per pagare le bollette (come accadde all’Inter di Zhang, alla Juve di Agnelli, al Milan di Yonghong Li o anche al Parma di Ghirardi). Ma Cardinale ha commesso l’errore di allontanare Paolino Maldini, amico personale di Currò.
Nella narrativa sul calcio italiano si confonde la capacità di indebitarsi con la ricchezza. Sarebbe come se io ereditassi una villa da un milione da qualche zio (che per altro non ho), la usassi a garanzia (mutuo ipotecario) per ottenere un prestito da 800 milioni per darmi alla bella vita. E dopo qualche anno mi rendessi conto che il mio tenore di vita, sommato alla rata che devo restituire, mi sta intaccando il valore della villa da un milione, sulla quale pende oltretutto un mutuo ipotecario. A quel punto, o liquido il bene immobile, estinguendo l’ipoteca e ripagando il mutuo, o prima o poi sono destinato al default, a vedere la banca esercitare il suo diritto reale e a perdere tutto. Quello che è successo a Yonghong Li nel 2019 e a Zhang nel 2024. E che non è successo ad Andreino Agnelli, perché dietro di lui c’è Exor, che in 18 mesi ha messo, sull’unghia, quasi un miliardo di euro.
Anche il Parma di Krause ha speso al di sopra dei propri mezzi. Ma l’azionista ha pazientemente ripianato le perdite. Quindi, se riferito a Krause, cosa significa che “gli americani pensano solo al bilancio”?
Semmai, sulla gestione Krause, ci sarebbe da chiedersi quale sarebbe il piano di medio e lungo termine. Perché a questo modo il Parma continuerà a perdere soldi, e Mr Krause a mettersi la mano nel portafogli e così via.
Le critiche alla gestione sportiva del Parma (che pure è reduce da una promozione in A) o del Milan (che pure lo scorso anno è arrivato secondo) ci stanno. Ma il comportamento delle società, dal punto di vista della gestione, è impeccabile. Il Milan ha addirittura raggiunto un equilibrio nei conti (leggero utile) che non obbliga la proprietà a immettere denaro per continuare a esistere. Il Parma da quell’equilibrio è relativamente lontano, però la gestione è cristallina e utilizza mezzi sostanzialmente propri o dell’azionista di riferimento.
L’ambizione non può far rima con mancanza di cognizione. Acquistare Cristiano Ronaldo da parte della Juventus non ha dimostrato ambizione. Acquistare Lukaku a 80 milioni da parte dell’Inter non ha dimostrato ambizione. Certo, entrambe hanno vinto. Senza creare nulla per il futuro, però. Lukaku è partito. Cristiano alla Juventus ha lasciato un carico di gol e anche una causa penale per soldi non versati.
Le squadre di calcio devono spendere secondo le proprie possibilità. Questo è il comandamento che rappresenta il primo mattone per la costruzione del calcio italiano del futuro. E imparare a non raccontare balle. Se non possono permettersi un calciatore o il rinnovo del contratto di una star, devono semplicemente dire che non possono permetterselo. E se questo per voi significa “pensare solo al bilancio”, allora anch’io credo che si debba “pensare solo al bilancio”.
Concludo tornando al tema dei “perdenti di successo” a cui avevo accennato. Nel baseball americano ci sono squadre che non vincono da tempo immemorabile e che comunque hanno incassi rispettabili e una situazione economica invidiabile. Dubito del valore di questo modello dal punto di vista sportivo. Nel senso che qualche obiettivo sportivo bisogna pur averlo. Ci credo ancora meno in un panorama come quello del calcio italiano, nel quale l’unico modo per fidelizzare il tifoso è attraverso i risultati. Perché le squadre giocano in stadi obsoleti, dove l’unica esperienza possibile è esultare per le vittorie. In ogni altro caso, la giornata allo stadio si sarà risolta in una serie di disagi da superare.
Il calcio in Italia ha bisogno di andare deciso verso il futuro. E come ripeto, il primo passo da fare è gestire i singoli club spendendo a seconda dei rispettivi mezzi. Fatto questo, si potrà iniziare a discutere di tutto il resto. Ad esempio, di come sono strutturati i contratti dei calciatori, dell’imposizione fiscale e altro. Prima di avere diritto di parola, il sistema deve trovare il suo equilibrio.
Un’ultima parola: c’è del vero nel fatto che chi investe nel calcio italiano debba rispettarne la storia. Il “player trading” è diventato una fonte di finanziamento, ma prima di dare il benservito a un beniamino dei tifosi, è sempre bene inserire nell’analisi “rischi e benefici” anche quel po’ di irrazionalità che è rappresentato dall’amore per la maglia. E’ anche vero che alla maggior parte del pubblico non interessa essere trattato da cliente (a me, ad esempio, quando frequento il Tardini). Ma una delle forze di una squadra di calcio sono quei tifosi che ritengono la squadra come la passione di una vita. Una passione che rappresenta una ricchezza che diventa incalcolabile anche per chi ha frequentato la Business School di Harvard. Riccardo Schiroli
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