Enrique Dussel, filosofo argentino-messicano, è una figura centrale nella Filosofia della Liberazione, un movimento filosofico nato in America Latina negli anni ’70. La sua opera si distingue per una critica profonda all’eurocentrismo e per l’elaborazione di un pensiero radicato nelle realtà storiche e sociali dell’America Latina.
La citazione “Io sono un altro; Sono un uomo; Ho dei diritti!” (Dussel, 1996:57) riflette l’essenza del suo pensiero. L’affermazione “Io sono un altro” sottolinea l’importanza dell’alterità, riconoscendo l’esistenza e la dignità dell’Altro, spesso marginalizzato o oppresso. Questo riconoscimento è fondamentale per costruire una società più giusta, in cui ogni individuo è visto nella sua piena umanità.
Dussel critica la pretesa dell’Occidente di essere il legittimo padrone del mondo e della sua storia, evidenziando come tale visione abbia portato all’esclusione e all’oppressione di intere popolazioni. La sua filosofia propone una nuova politica orientata verso le vittime innocenti, coloro che sono stati esclusi e privati dei loro diritti. In questo contesto, l’affermazione “Sono un uomo; Ho dei diritti!” diventa un grido di riconoscimento e di richiesta di giustizia da parte degli oppressi.
La critica di Dussel al pensiero occidentale si basa sull’idea che la filosofia non possa essere universale se ignora le realtà e le esperienze dei popoli non occidentali. Egli sostiene che, cambiando il contesto geografico-politico e storico-sociale, cambiano anche i temi e i modi della filosofia. Pertanto, una filosofia autentica deve emergere dalla realtà concreta dei popoli, riconoscendo la diversità delle esperienze umane.
In conclusione, l’opera di Enrique Dussel rappresenta un invito a ripensare la filosofia e la politica a partire dalle periferie del mondo, dando voce a coloro che sono stati storicamente silenziati. La sua enfasi sull’alterità e sul riconoscimento dei diritti degli oppressi offre una prospettiva critica e costruttiva per costruire una società più equa e inclusiva.
Per approfondire il pensiero di Enrique Dussel, si consiglia la lettura della sua opera “Filosofia della liberazione”, considerata un classico della filosofia latino-americana contemporanea.
Enrique Dussel, nato il 24 dicembre 1934 a La Paz, un piccolo villaggio nella provincia di Mendoza, Argentina, trascorse i primi anni della sua vita tra La Paz e Buenos Aires. La sua formazione intellettuale e morale cominciò a prendere forma nella città di Mendoza, dove, fin da giovane, manifestò una profonda preoccupazione per coloro che soffrivano. Questa sensibilità si tradusse in un impegno sociale e religioso che segnò profondamente la sua esistenza.
Dussel aderì all’Azione Cattolica, unendo la militanza religiosa a pratiche che formarono il suo carattere, come l’alpinismo. Fin dall’adolescenza, maturò una forte responsabilità etica verso gli altri, coltivata attraverso esperienze che includevano visite agli ospedali e la lettura di autori mistici come San Giovanni della Croce, Teresa d’Avila e San Bernardo. Questa combinazione di spiritualità e impegno sociale delineò le basi del suo futuro pensiero filosofico.
Impegno sociale e inizio degli studi
Negli anni ’50, Dussel si impegnò politicamente come presidente del Centro di Filosofia e Lettere, partecipando alla fondazione della Federazione Universitaria dell’Ovest (FUO). La sua opposizione al regime di Perón nel 1954 lo portò all’arresto, un’esperienza che descrisse come un periodo di formazione accelerata sia a livello personale che intellettuale. Parallelamente, intraprese studi di filosofia presso l’Università Nazionale di Cuyo, con un forte interesse per l’etica, che definì “la spina dorsale” della sua formazione. Durante questi anni, si immerse nella lettura dei classici della filosofia, studiandoli nelle loro lingue originali: Platone e Aristotele in greco, Agostino e Tommaso d’Aquino in latino, Descartes e Leibniz in francese, Scheler e Heidegger in tedesco. Questo bagaglio gli permise
di sviluppare una solida base filosofica, orientata alla riflessione etica e alla comprensione profonda dei fenomeni sociali.
L’esperienza europea
Nel 1957, grazie a una borsa di studio, Dussel si trasferì a Madrid per continuare i suoi studi. Decidere di partire per l’Europa fu per lui un atto di rottura con il provincialismo culturale latinoamericano dell’epoca. Partì da Buenos Aires su una nave, sapendo che il suo viaggio sarebbe stato lungo e incerto. Rimase in Europa per dieci anni, un periodo che definì cruciale per il consolidamento del suo pensiero. Durante questo tempo, approfondì il contatto con le tradizioni filosofiche europee, gettando le basi per quello che sarebbe diventato il suo contributo distintivo alla filosofia della liberazione.
L’inizio di una visione filosofica
Dussel si distinse per il modo in cui univa la tradizione filosofica occidentale con la necessità di rispondere ai problemi sociali ed etici del suo tempo, specialmente in un contesto latinoamericano segnato dalla disuguaglianza e dall’oppressione. La sua formazione eterogenea, unita a esperienze di vita vissuta, gli permise di elaborare un pensiero critico, incentrato sull’etica e sulla liberazione, che avrebbe influenzato profondamente la filosofia latinoamericana e decoloniale.
La prima fase della vita e della formazione di Enrique Dussel rivela non solo il percorso di un intellettuale, ma anche quello di un uomo profondamente impegnato nel coniugare il sapere filosofico con l’azione sociale, un principio che rimase al centro del suo pensiero per tutta la vita.
La frase di Enrique Dussel, “Io sono un altro; Sono un uomo; Ho dei diritti!”, racchiude una potente tensione etica e politica che sfida il fondamento dell’ontologia occidentale basata sul soggetto autocentrato. Dussel ribalta il paradigma cartesiano dell’ego cogito, il soggetto autonomo e sovrano, sostituendolo con una soggettività relazionale e aperta all’alterità. Questa dichiarazione implica che l’identità personale non si costruisce nell’isolamento, ma nel riconoscimento dell’Altro come condizione ontologica e morale fondamentale.
Dal punto di vista della Filosofia della Liberazione, l’affermazione è un atto di resistenza ontologica e politica contro le strutture oppressive che negano la dignità e i diritti di milioni di persone. Dichiarare “Io sono un altro” significa riconoscere la propria vulnerabilità e al contempo aprirsi a una solidarietà universale. L’inclusione dell’Altro non è solo una questione morale, ma una necessità per la costruzione di un mondo pluralistico e giusto.
Dussel lega questa visione alla sua critica dell’egemonia occidentale, un sistema che si è auto-proclamato arbitro unico della storia e della filosofia, ignorando le voci dei colonizzati, dei poveri e delle vittime. Egli non si limita a denunciare le storture di questo paradigma, ma propone un’alternativa: una filosofia radicata nella realtà concreta e storica dei popoli oppressi, in cui la sofferenza dell’Altro diventa il punto di partenza per un’azione etica e politica trasformativa.
Dussel distingue due paradigmi della modernità:
Il paradigma positivo, che interpreta la modernità come un processo di emancipazione e razionalità.
Il paradigma negativo, che la identifica come legittimazione della violenza irrazionale verso l’Altro.
L’ego conquiro (il soggetto colonizzatore) precede l’ego cogito cartesiano, diventando il fondamento del dominio coloniale. Questo soggetto moderno si autolegittima attribuendo innocenza alle proprie azioni violente, mentre vittimizza l’Altro (colonizzato) dichiarandolo colpevole della propria sofferenza. Dussel chiama questa narrazione il mito della modernità, in cui il sacrificio delle vittime diventa il “prezzo” della modernizzazione.
La colonialità dell’essere/possedere
In dialogo con Franz J. Hinkelammert, Dussel evidenzia come la soggettività moderna si basi sulla
colonialità dell’essere e del possesso. Il soggetto capitalista riduce la natura e gli esseri umani a oggetti di dominio e possesso. La proprietà privata diventa il fondamento ontologico dell’individuo moderno: solo chi possiede acquisisce dignità, mentre chi non possiede è escluso dall’essere.
Hinkelammert collega questa logica alla filosofia dell’Illuminismo inglese:
Locke concepisce la società come un contratto per proteggere la proprietà privata.
Hume riduce la ragione a uno strumento per massimizzare utilità e profitto.
Smith celebra il mercato come regolatore armonico della società, giustificando l’egoismo individuale come base del bene comune.
Questa prospettiva porta alla formazione dell’homo oeconomicus, un individuo orientato esclusivamente alla massimizzazione dei profitti. Il capitalismo moderno legittima così una razionalità strumentale che sacrifica l’interesse collettivo per il vantaggio individuale.
La critica al concetto di modernità, in particolare esaminando il “feticismo della modernità” e la falsa antinomia tra modernità e postmodernità.
L’analisi si sviluppa su due espressioni principali di questo feticismo: la modernità come emancipazione razionale e il postmodernismo come critica radicale della razionalità.
1. Modernità come emancipazione razionale: Questo concetto, che ha le sue radici nell’Illuminismo, concepisce la modernità come il superamento dell’immaturità umana, un processo in cui l’individuo raggiunge l’autonomia attraverso l’uso della ragione. Jürgen Habermas propone che la modernità si caratterizza per una coscienza storica che si proietta verso il futuro, con un impegno per l’autocoscienza storica. Tuttavia, come sottolinea Enrique Dussel, questa visione eurocentrica della modernità ignora le radici coloniali e imperialistiche che legano la modernità capitalista alla Conquista del Nuovo Mondo. Dussel critica anche l’idea di un “universo razionale” che avrebbe portato all’emancipazione universale, poiché questa visione esclude le esperienze e i percorsi non occidentali.
2. Postmodernismo e critica della modernità: Il postmodernismo, rappresentato da pensatori come Jean-François Lyotard e Gianni Vattimo, sostiene che la modernità è ormai superata e che le “grandi narrazioni” di emancipazione (come il marxismo e il liberalismo) sono fallite. Lyotard, per esempio, vede l’esaurimento di queste narrazioni come una liberazione, mentre Vattimo ritiene che la fine della modernità coincida con la fine della storia come processo di progresso. Tuttavia, questa posizione critica può sfociare in un nichilismo che dissolve ogni valore emancipatorio, come sottolineato da Roberto Follari, che evidenzia come nel postmoderno venga abbandonata ogni volontà di cambiamento globale. Dussel, a sua volta, critica la visione postmoderna per la sua incapacità di riconoscere la persistente colonialità del potere e la continua violenza storica nei confronti delle culture non europee. Un punto chiave dell’analisi è la critica alla razionalità capitalistico-moderno, che si basa sulla valorizzazione del capitale a discapito della vita e dell’ambiente. Dussel e Hinkelammert sostengono che il feticismo capitalistico, che considera il capitale come un’entità autonomamente produttiva, nasconde la realtà che la ricchezza è generata dalle relazioni sociali e dal lavoro umano.
L’analisi marxiana viene estesa a una critica più ampia delle strutture sociali e istituzionali che sostengono la totalità capitalistica, giungendo alla conclusione che il capitalismo implica una dialettica tra vita e morte, dove il capitale distrugge le basi della vita per alimentare la valorizzazione del capitale stesso. La teoria del feticismo, quindi, diventa uno strumento per vedere “l’invisibile” nelle strutture sociali e nelle relazioni di produzione, rivelando come il lavoro e la natura siano sfruttati in modo che la vita umana venga sacrificata per la crescita del capitale.
Gli autori propongono una “etica dell’esteriorità”, che sostiene la dignità inalienabile del soggetto vivente e rifiuta il sistema che considera le persone e la natura come meri oggetti da sfruttare. In questa ottica, la coscienza etica si sviluppa a partire dalla negazione della vittimizzazione e dalla lotta contro le istituzioni che perpetuano il feticismo capitalista. La proposta finale è quella di un’economia
che sia al servizio della vita, in grado di garantire la soddisfazione dei bisogni materiali e la dignità di tutti gli esseri umani, promuovendo una vita piena per ogni individuo.
In sintesi, Dussel e Hinkelammert ci invitano a superare il feticismo moderno e postmoderno, riconoscendo le radici coloniali e capitalistiche di tali concezioni, e ad abbracciare un’etica che pone la vita, la giustizia sociale e la sostenibilità ambientale al centro della nostra visione del mondo.
Conclusione
La riflessione finale che emerge da questo dibattito sulla critica marxiana del feticismo e la sua applicazione ai temi della razza, dell’oppressione e della modernità è un invito urgente a superare il modello capitalistico che ha definito la nostra visione del mondo. Dussel e Hinkelammert propongono una “economia per la vita”, che vada oltre le logiche della valorizzazione capitalistica, favorendo un’ottica che riconosca la dignità inalienabile di ogni soggetto vivente e la centralità della vita stessa. Questo progetto implica una negazione della logica razionalistica e strumentale che domina l’attuale sistema economico, favorendo piuttosto un’etica che ponga al centro la sostenibilità delle condizioni materiali per una vita piena e condivisa.
La “negazione della negazione” che Dussel e Hinkelammert evocano si traduce nell’affermazione di una nuova coscienza etica che non solo smantella le strutture di potere capitalistiche, ma promuove una visione inclusiva, ecologica e solidaristica della vita, dove le differenze culturali, sociali e razziali non sono più motivo di esclusione, ma di arricchimento reciproco.
Il pensiero di Dussel e Hinkelammert, quindi, ci invita a mettere in discussione la modernità stessa come paradigma di civiltà e a sviluppare nuovi modelli di relazione che rifiutino l’imperialismo culturale e l’eurocentrismo. Solo così, si propone, sarà possibile immaginare e costruire un futuro che metta davvero la vita, in tutte le sue forme e manifestazioni, al centro della riflessione politica, economica e sociale.
In definitiva, la sfida etica del nostro tempo è quella di pensare e praticare una “vita oltre la modernità”, un progetto che non solo affermi i diritti di chi è stato storicamente escluso, ma che riconosca la nostra interconnessione come esseri umani e con l’intero ecosistema. Questo processo di superamento della modernità implica una nuova razionalità che, basata sulla giustizia sociale e ambientale, possa dare vita a una civiltà più equa e sostenibile.
Dussel e Hinkelammert offrono una critica radicale alla modernità, evidenziandone il carattere violento e coloniale. La loro analisi invita a ripensare il progetto moderno, rifiutando l’idea di progresso lineare e riconoscendo la centralità delle esperienze storiche e culturali dei popoli oppressi. Questo approccio propone una modernità plurale e dialogica, capace di includere l’alterità e di superare la logica del dominio.
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