Nel 2016 Milon, un ventenne del Bangladesh, arrivò in Libia con un volo che fece scalo negli Emirati Arabi Uniti. Lavorò nel paese nordafricano per qualche mese, poi salì su un barcone diretto a Lampedusa. Attraversò il Mediterraneo senza problemi. Appena sbarcato, chiese asilo politico alla Commissione territoriale per la protezione internazionale sostenendo che, se fosse stato rimpatriato, rischiava di essere perseguitato dalle persone che gli avevano prestato dei soldi. La Commissione respinse la richiesta perché la motivazione non era tra quelle elencate dalla Convenzione di Ginevra del 1951, che regola il diritto d’asilo.
MILON SI ERA RIVOLTO AGLI USURAI dopo che un alluvione gli aveva distrutto la casa e il pollaio, mandando in rovina lui e la sua famiglia. Un documento attestava che per questo aveva ottenuto anche un piccolo risarcimento dal governo. La sua avvocata fece ricorso al Tribunale dell’Aquila, sostenendo che il giovane era stato costretto a lasciare il suo Paese a causa di una catastrofe provocata dal cambiamento climatico e per questo aveva diritto alla protezione umanitaria. Allegò al ricorso il documento che attestava i danni provocati dalla tempesta alla famiglia di Milon e alcuni rapporti scientifici che mostravano come il Bangladesh sia un paese a rischio per alluvioni e cicloni. Il 18 febbraio del 2018 il Tribunale dell’Aquila accolse il ricorso e gli concesse la protezione umanitaria.
FU IL SECONDO CASO IN CUI UN TRIBUNALE italiano riconobbe lo status di rifugiato climatico. Il primo risaliva al 2015, quando il Tribunale di Bologna accolse il ricorso di un migrante pachistano, Rachid, che era scappato dopo che nel 2013 un’alluvione aveva distrutto i terreni che coltivava e aveva ucciso tutti gli animali che allevava. Anche nel suo caso la richiesta di asilo politico era stata respinta dalla Commissione territoriale. La sua avvocata aveva fatto ricorso in tribunale, motivando la richiesta di protezione umanitaria con i fattori ambientali, e il tribunale le aveva dato ragione.
QUESTE DUE VICENDE HANNO FATTO scuola tra le organizzazioni che si occupano di migranti in Italia. A fare giurisprudenza ci ha pensato invece la Corte di Cassazione. A febbraio del 2021, un migrante proveniente dal delta del Niger, a sud della Nigeria, si è visto respingere la domanda d’asilo sia dalla Commissione territoriale che dal Tribunale di Ancona. Ha portato il caso in Cassazione, che invece gli ha dato ragione. I giudici hanno sostenuto che in caso di disastri ambientali è possibile ottenere la protezione umanitaria speciale. Si tratta di una forma complementare all’asilo che permette ai migranti che arrivano da paesi che non sono in guerra aperta e non sono perseguitati di poter restare legalmente in Italia. La protezione umanitaria speciale fu abolita nel 2018 dai cosiddetti «decreti sicurezza» del ministro degli interni Matteo Salvini, fu reintrodotta dal suo successore Luciana Lamorgese nel 2020 ed è stata depotenziata dal governo Meloni con il cosiddetto decreto Cutro del 2023.
NEL GIUDIZIO, LA CORTE DI CASSAZIONE ha affermato che il giudice deve valutare la situazione nel paese di provenienza del richiedente, «con specifico riferimento al peculiare rischio per il diritto alla vita e all’esistenza dignitosa derivante dal degrado ambientale, dal cambiamento climatico o dallo sviluppo insostenibile dell’area», un’ipotesi che non è prevista dalla Convenzione di Ginevra, che è stata scritta quando ancora non si parlava di cambiamenti climatici.
NONOSTANTE L’AUMENTO delle persone in fuga da alluvioni o dalla siccità nessun accordo internazionale o trattato riconosce i rifugiati climatici. Nel 2020 lo ha fatto in via indiretta il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani di un abitante dell’atollo di Kiribati che aveva chiesto asilo politico in Nuova Zelanda perché la sua isola sta scomparendo a causa dell’innalzamento dell’Oceano, ha stabilito il principio che «chi fugge dal cambiamento climatico non può essere messo in pericolo». La richiesta è stata respinta perché le autorità della Repubblica di Kiribati si stanno attivando, «con l’assistenza della comunità internazionale», «per proteggere e, ove necessario, ricollocare la popolazione».
ANCHE IN ITALIA NON ESISTE una legge che regola le migrazioni provocate dai cambiamenti climatici. Al contrario, nel nuovo elenco dei cosiddetti «Paesi terzi sicuri», cioè quelli dai quali i migranti hanno forti limitazioni nella possibilità di chiedere asilo politico, sono stati inseriti paesi come il Bangladesh e l’Egitto, da cui molte persone vanno via a seguito dei danni provocati proprio dal clima.
IN UN RAPPORTO SU «MIGRAZIONI ambientali e crisi climatica» che sarà presentato a Milano il 23 gennaio, l’associazione A Sud sostiene che la decisione di lasciare il paese di origine è legata al «sommarsi di cause diverse e tra loro interconnesse» e questo «rende difficile l’isolamento del motivo climatico-ambientale». Secondo il dossier, una delle ragioni della difficoltà di riconoscerla è la scarsa consapevolezza dei migranti sulle questioni ambientali. Nei racconti dei cittadini del Bangladesh, del Pakistan e di diversi paesi africani presenti nel dossier sono però «ricorrenti i racconti della distruzione, causata da eventi climatici estremi, di case, edifici o beni da cui dipendeva la sussistenza propria o della famiglia».
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