Quante belle cose ho fatto nel mese di settembre! Ho licenziato la nuova edizione della mia antologia per le scuole superiori, e l’ho presentata ad alcune decine di insegnanti; sono stato all’estero per la Settimana della lingua italiana; ho parlato di Kafka (senza grande competenza) a una conferenza pubblica a più voci su Kafka; sono stato ospite della Festa del Racconto di Carpi e ho parlato con due ottimi scrittori di fronte a un folto pubblico domenicale.
Tutte queste belle cose cadono, quale più quale meno, sotto la categoria “Terza missione”, che è stata introdotta da qualche tempo nelle università. Vorrebbe dire che oltre alle prime due di missioni, che sono insegnare e studiare (o “fare ricerca”), ne esiste una terza della quale l’università, cioè i professori universitari, devono farsi carico, e cioè condividere i prodotti dei loro studi con il mondo che sta al di fuori dell’università, comunicare il proprio sapere alla società che, non bisogna dimenticarlo, gli paga lo stipendio (e gli studi, e le biblioteche).
In un recente articolo uscito online sulla rivista Il Mulino, Claudio Marazzini, già presidente dell’Accademia della Crusca, ha detto male di questo zelo relativo alla “Terza missione”. Male, ma non abbastanza, perciò vorrei aggiungere qualcosa. Premettendo che (1) mi riferisco alla terza missione applicata alle discipline del comparto umanistico, perché so bene che la questione si pone in termini diversi in relazione alle discipline del comparto medico-scientifico, la cui attività di ricerca può avere ricadute sulla società più immediate e proficue (anche per chi le pratica) rispetto all’attività – diciamo – degli studiosi di greco o paleografia o linguistica romanza; e che (2) questa inabilità a distinguere tra il proprium delle varie discipline universitarie (il protocollo X va bene se applicato alla scienza dei materiali, ma non va bene se applicato alla filologia classica, o viceversa) è uno dei difetti che a mio avviso rendono l’attività dell’ANVUR (Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca), nel complesso, più dannosa che benefica.
Tornando a noi, il fatto è che nel mese di settembre io non ho mai visto uno studente, non ho fatto lezione, non ho corretto tesi, e non ho quasi avuto il tempo di studiare. Vale a dire che, onorando la terza, sono venuto meno alle prime due missioni di chi insegna all’università. Naturalmente, non è sempre così, ed è facile obiettare che si possono benissimo fare tutte e tre le cose: curare l’istruzione degli studenti, scrivere buoni saggi scientifici, adoperare il proprio sapere per illuminare la società.
Si può fare, in effetti; si fa. Ma bisogna tenere conto di come nel giro di pochi decenni è mutato il contesto, e adeguarsi.
Quanto alla prima missione, la formazione, gli studenti che arrivano all’università hanno soprattutto bisogno di parlare con qualcuno più grande ed esperto di loro. Non è il pubblico omogeneo dell’università di cent’anni fa, non è il piccolo contingente di post-liceali destinati alle professioni, è una massa che più eterogenea non si potrebbe, per la maggior parte composta da ragazzi che hanno un’esperienza puerile dei fatti culturali (arti visive, letteratura, musica, cinema eccetera). Arrivano spersi, e spersi rimangono per mesi e mesi, a volte per anni, quindi per sempre. Parlano con i docenti per dieci minuti in occasione dell’esame, o per la tesi, e in entrambi i casi non si tratta di un colloquio veramente fruttuoso: troppo breve, troppo pieno di ansie. Nei loro anni di università parlano con i loro compagni, di solito i loro compagni d’anno, perché l’organizzazione del curriculum scoraggia l’incontro con studenti più grandi; e del resto anche questa conversazione tra pari comincia a farsi più rara, a mano a mano che lezioni e colloqui e ricevimenti si smaterializzano, cioè a mano a mano che Zoom o Teams prendono il posto degli incontri in carne e ossa.
Quindi la prima missione dell’università, formare gli studenti, dovrebbe prendere strade diverse da quelle che si prendevano in passato, perché il pubblico e i tempi sono cambiati. Non basta la lezione frontale, occorre il laboratorio; non basta il laboratorio, occorre il dialogo faccia a faccia: che coi numeri attuali è molto difficile e richiede molto impegno, impegno che proprio per questo non andrebbe diluito con altre iniziative magari più appaganti (presentare il proprio ultimo libro a un pubblico di adulti colti è più appagante che correggere gli scritti di un post-adolescente non colto).
Quanto alla seconda missione, studiare, anche in questo caso le cose sono cambiate, e non direi in meglio. Da un lato, il tempo per studiare è diminuito, perché sono aumentate (giustamente) le ore di lezione e soprattutto (ingiustamente) le ore da dedicare a incombenze burocratiche quasi sempre inutili se non controproducenti (ovvero funzionali a tenere in piedi una macchina amministrativa che macina soprattutto acqua). Dall’altro, la libertà degli studiosi è andata contraendosi a mano a mano che i loro liberi studi (in sostanza: leggere saggi scientifici e scriverne a propria volta) hanno dovuto incanalarsi in progetti che possano attirare finanziamenti, coinvolgere non un solo studioso ma una squadra di collaboratori, fruttare risultati visibili e condivisibili in rete. A quale progetto stai lavorando? Non a scrivere un libro, come usava una volta, visto che scrivere un libro non soddisfa nessuna di queste tre esigenze.
Quanto alla terza missione, come dicevo, si è sempre fatta. Si è sempre parlato di libri, arte, musica, scienza al di fuori dell’università, si è sempre fatta divulgazione. La differenza, in questa “età dell’abbondanza”, è che adesso la fanno tutti, specie nel paese dei mille festival letterari, delle mille lecturae Dantis, dei mille vernissage, dei duecentottantadue libri pubblicati ogni giorno e presentati davanti ai parenti nella libreria-piadineria sotto casa. È davvero questa una smania che va ulteriormente sollecitata con pubblici riconoscimenti, menzioni d’onore, scatti di carriera (perché anche di questo si parla: di soldi)? Come attività volontaria (e saltuaria) era una sensata forma di restituzione al mondo extra-universitario. Come attività normata e premiata rischia di diventare lo sport preferito di chi non ha tanto a cuore né la prima né la seconda missione, e ama sentire il suono della propria voce, o vedere il proprio nome scritto sui manifesti: pessima razza di esseri umani. No, no: bisogna fare poche cose, con più cura; e limitare, non moltiplicare, le occasioni di distrazione dai compiti primari dell’università.
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