La tenuta della contabilità non basta a qualificare un amministratore come di fatto

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Per affermare la responsabilità penale derivante dall’omessa dichiarazione di un amministratore di fatto è necessario accertare accuratamente che vi siano i presupposti per la sussistenza di tale ruolo e soprattutto va accertato il dolo specifico di evasione.

Nel caso portato all’attenzione della Cassazione nella sentenza n. 526 depositata ieri, era stata avviata una verifica fiscale nei confronti di una srl unipersonale, in particolare della persona che risultava essere persona designata alla formale custodia della documentazione relativa allo stato attivo e passivo della società stessa a seguito della morte della legale rappresentante, nonché coniuge dello stesso. Costui era stato condannato alla pena di un anno e sei mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 5 del DLgs. 74/2000. Ma la difesa aveva opposto il fatto che il giudice di merito aveva valorizzato indici (l’essere il marito della contribuente, l’aver accettato l’eredità con beneficio di inventario, l’esser stato nominato custode della documentazione contabile della società quando, peraltro, la stessa era ormai inattiva da anni, l’essersi professato a conoscenza delle vicende della compagine sociale) tutt’altro che sintomatici del concreto esercizio di poteri gestori.

I giudici di legittimità concordano con tali doglianze precisando che la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall’art. 2639 c.c. postula l’esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione; precisando che “significatività” e “continuità” non comportano necessariamente l’esercizio di “tutti” i poteri propri dell’organo di gestione, ma richiedono l’esercizio di un’apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale. In tale prospettiva, la tenuta della contabilità non costituisce, di per sé, atto gestorio dell’ente.
Né costituiscono argomenti validi l’esser marito della legale rappresentante della società e l’essersi professato a conoscenza delle vicende della società posto che tale conoscenza può derivare proprio dalla circostanza dell’essere coniuge della amministratrice e non dall’indimostrato esercizio di poteri gestori.

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Altro elemento contestato dalla Cassazione riguarda la prova del dolo specifico di evasione, necessario per la sussistenza del reato in questione.
Ove venga accertata un’imposta effettivamente dovuta superiore a quella dichiarata (o non dichiarata affatto) e/o componenti positive di reddito inferiori a quelle effettive o elementi passivi fittizi, l’indagine non avrebbe verificato altro che alcuni degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 5 del DLgs. 74/2000, quelli che qualificano, sul piano oggettivo, l’offesa degli interessi erariali e giustificano (ma non esauriscono) la rilevanza penale della condotta. In altre parole, tale indagine non assorbe quella relativa all’accertamento del dolo specifico di evasione. Altrimenti si correrebbe il rischio di identificare tale dolo con la pura e semplice consapevolezza dell’obbligo dichiarativo, della sua violazione, dell’entità dell’imposta non dichiarata (cfr. Cass. SS.UU. n. 35/2001).

Come emerge con sempre maggiore frequenza nella recente giurisprudenza penal-tributaria, non si può ritenere sufficiente, ai fini della prova del dolo specifico, la mera consapevolezza dell’entità dell’imposta evasa. Tale dato può essere certamente valorizzato insieme con altri dai quali possa essere tratta la convinzione che l’omissione era finalizzata all’evasione dell’imposta: il mancato pagamento postumo dell’imposta evasa, in tempi naturalmente ragionevoli e non, per esempio, a distanza di anni, può certamente essere preso in considerazione. Così come può essere utilmente valutata la reiterazione dell’omissione per più anni di imposta o, come nel caso di specie, il disinteresse rispetto alle richieste e verifiche tributarie. In ultima analisi deve essere ripudiato un metodo di accertamento del dolo che si risolve nella (indiretta) affermazione dell’automaticità del dolo o “dolus in re ipsa” (Cass. n. 44170/2023).

L’accertamento con adesione non costituisce causa di non punibilità

Nelle motivazioni della pronuncia in esame viene, inoltre, evidenziato come, diversamente dal ravvedimento operoso, l’accertamento con adesione non costituisce causa di non punibilità ai sensi dell’art. 13 del DLgs. 74/2000, nemmeno se il contribuente abbia, in ipotesi, pagato l’intero debito ridefinito con l’Agenzia delle Entrate, tanto più che l’accertamento con adesione presuppone la conoscenza dell’iniziativa erariale che osta in termini assoluti all’applicazione di tale causa di non punibilità. L’integrale pagamento del debito erariale, anche se rimodulato a seguito dell’accertamento con adesione, costituisce invece fatto che attenua la pena ai sensi dell’art. 13-bis del DLgs. 74/2000.



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