Genitori caregiver, quando l’attivismo passa da Instagram

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TrapaLuca, La storia di Cesare, i Martuccia, Sirio e i Tetrabondi, solo per citarne alcuni. Sono i profili Instagram di genitori di figli con disabilità o con malattie importanti. Genitori caregiver. Nei post condividono momenti della loro quotidianità. Lo fanno per sensibilizzare l’opinione pubblica, per cambiare lo storytelling sulla disabilità, per rivendicare diritti: sono influencer-attivisti. Per la prima volta una ricerca analizza questo fenomeno e i linguaggi utilizzati. Lo studio si intitola Superguerrieri: l’influ-attivismo dei genitori caregiver tra rappresentazioni della disabilità e individualismo politico, è a firma di Alessandra Baffi, psicologa e psicoterapeuta e Marco Binotto, che insegna Sociologia dei processi culturali alla Sapienza di Roma e ha all’attivo diverse pubblicazioni sulla comunicazione del non profit. Entrambi hanno un figlio con disabilità.

L’articolo è appena stato pubblicato sulla rivista Mediascapes Journal, all’interno di un numero monografico che indaga il ruolo degli influencer come attivisti digitali, che si occupino di femminismo, di ambiente o di disabilità (qui il numero della rivista e qui l’articolo sui genitori caregiver influencer). Nel caso specifico sono stati esaminati i contenuti postati per due anni (tra il 1 gennaio 2021 e il 31 dicembre 2022) da 22 profili Instagram, che all’epoca avevano complessivamente 1.266.698 follower. Oggi quegli stessi profili hanno un milione di followers in più e già questo numero ci dice qualcosa.

In tempi in cui la partecipazione secondo le modalità classiche è platealmente in crisi, l’idea dell’attivismo digitale come nuova forma di partecipazione è qualcosa di concreto o è solo un wishful thinking? Davvero sotto il like c’è di più? Chi crea contenuti ha il desiderio o l’obiettivo di generare un impegno civico nella community che lo segue? Questi profili stanno contribuendo a cambiare i linguaggi e lo storytelling sulla disabilità? Insomma, è possibile ed è efficace una saldatura tra l’essere influencer e l’essere attivista? Sono domande che sfidano un po’ tutto il Terzo settore, negli ambiti più diversi.

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Partiamo da una domanda scomoda, ma che va fatta. Nelle conclusioni affermate che «quella proposta è un’immagine della disabilità stereotipata e incentrata sul pietismo, attraverso la spettacolarizzazione della vita dei bambini disabili», o che «la forza che scaturisce da questo tipo di racconto sui social, corredato da immagini dal forte impatto emotivo, favorisce un’altissima condivisione dei contenuti, trasformando questi genitori in una sorta di influencer del dolore». Sono parole che possono suonare molto dure. Ci sono anche passaggi sugli aspetti commerciali che attorno ai singoli profili sono cresciuti: su 22 profili, 10 hanno pubblicato (almeno) un libro autobiografico, 12 hanno collaborazioni commerciali con la sponsorizzazione di prodotti e servizi di vario genere, 11 hanno promosso raccolte fondi, ma solo in tre casi destinate a supportare le attività di non profit. Capisco d’altronde che l’aver scelto di avere una dimensione pubblica e si è rivendicato un ruolo di “rottura” rispetto alla narrazione imperante implica poi anche essere giudicati rispetto agli obiettivi che si sono dichiarati e che proprio questo è il compito di una ricerca. Che appunto è una ricerca e non una “pagella” di merito alle singole persone.

Baffi: Questa ricerca nasce da un mio personale interessamento per queste nuove forme di comunicazione della disabilità, che ho voluto approfondire in occasione della mia tesi per la magistrale in Comunicazione. Seguivo da tempo due blog di genitori caregiver, fin da quando non erano ancora approdati sui social: blog in cui parlavano delle loro difficoltà, della necessità di fare gruppo, di creare un movimento intorno a questi temi… li trovavo molto interessanti, anche per il loro modo schietto di parlare di disabilità. Mi ero resa conto di un cambiamento piuttosto evidente che c’è stato nel passaggio dal blog alle piattaforme social, anche legato al fatto che sui social le immagini contano più delle parole: il contenuto in quel passaggio è diventato quasi solo uno “sfondo” all’immagine. Non solo: queste immagini hanno iniziato a “cozzare” con ciò che si prefiggevano questi blogger, ovvero una nuova narrazione della disabilità e un nuovo modo di parlare di questo tema.

In che senso? Come sono cambiate le immagini?

Baffi: Diventavano sempre di più immagini a sfondo pietistico, spesso foto dei bambini ricoverati in ospedale, con apparecchiature, tubi, flebo… che esibivano la sofferenza. Questo cambiamento nella comunicazione, direi concomitante con il passaggio dal blog ai social, mi ha incuriosita e anche un po’ preoccupata. E col professor Binotto abbiamo deciso di approfondire. Secondo quello che è uscito dalla ricerca, la piattaforma condiziona molto il messaggio, perché parliamo comunque di piattaforme nate con uno scopo commerciale: in qualche modo, se vuoi far parte della piattaforma devi adeguarti e scendere a compromessi. È la piattaforma che guida la comunicazione: lo vediamo in tutti campi, non solo nella disabilità. L’osservazione dei profili ai fini della ricerca si è conclusa il 31 dicembre 2022 e devo dire che successivamente alcuni hanno modificato la modalità comunicativa, in un caso per esempio le immagini dei bambini sono state tolte del tutto. Altri profili invece sono cresciuti tantissimo come numero di follower, in concomitanza – purtroppo – con il peggioramento delle condizioni di salute dei figli: anche questa cosa fa riflettere. Si vede una differenza numerica netta di like tra i post in cui il bambino è ritratto in un contesto più gioioso rispetto a quelli in cui i bambini sono mostrati in una situazione di sofferenza. La disparità dei numeri è impressionante. Ovvio che i like siano un rafforzamento, per cui la volta dopo tenderai a riproporre un contenuto simile: pur prescindendo da logiche commerciali, sentire l’abbraccio (anche solo virtuale) di tante persone è comunque un elemento potente.  

Professore, faccio anche a lei la stessa domanda. Davvero in base alle vostre osservazioni possiamo osare parlare di “influencer del dolore”?

Binotto: Ovviamente non c’è un giudizio sulla vita delle persone e anzi mi dispiace se passasse questa idea. Tra l’altro Alessandra ed io abbiamo una situazione personale in qualche modo simile a quella delle famiglie di cui abbiamo studiato le pagine Instagram, siamo loro molto vicini da questo punto di vista: ovviamente questo in un articolo non può trasparire, anche se forse bisognerebbe cominciare a dichiararlo. In realtà noi analizziamo in maniera piuttosto rigorosa il tipo di comunicazione che queste pagine fanno sulla disabilità e ci poniamo delle domande da attivisti movimento delle persone con disabilità, un movimento di cui anche noi siamo parte. Il tipo di rappresentazione che si dà, le immagini che si scelgono di usare… Una delle prime domande che ci siamo posti, per esempio, è quella sull’autodeterminazione della persona disabile: ci sono genitori che hanno scelto di parlare in prima persona al posto del figlio, come se fossero il figlio. Il nulla su di noi senza di noi, che da decenni è il punto di partenza dei ragionamenti e delle rivendicazioni di tutto il movimento della disabilità, in tutto il mondo qui dove finisce? La persona con disabilità non ha parola, non ha la possibilità di agency, di un suo protagonismo. Questo è un passo avanti o un passo indietro? Non si tratta di dare un giudizio sulle persone, ma se decidi di avere una posizione pubblica, di diventare un pezzo della rappresentazione sociale della disabilità nella società… inevitabilmente le tue responsabilità aumentano. Quindi i giudizi che ci permettiamo di dare vanno nella direzione di aumentare la coscienza della stessa comunità delle persone con disabilità e delle loro famiglie, per spingerle a rendersi conto degli effetti che si hanno quando ci si esprime pubblicamente. Ed è un giudizio che va sempre nella direzione del rispetto delle persone più fragili.

Il nulla su di noi senza di noi, che da decenni è il punto di partenza dei ragionamenti e delle rivendicazioni di tutto il movimento della disabilità, in tutto il mondo qui dove finisce? La persona con disabilità non ha parola, non ha la possibilità di agency, di un suo protagonismo. Questo è un passo avanti o un passo indietro?

Rispetto ai contenuti, la vostra analisi mostra come, a dispetto delle dichiarazioni d’intenti, i post di fatto si allineano a una comunicazione che spinge sul modello della disabilità come patologia sociale e della compassione (42% dei post totali) o sul versante opposto – generalmente ugualmente stigmatizzato – dell’esaltazione della persona con disabilità come supereroe (modello del super crip, presente nel 37% dei post). L’approccio comunicativo basato sul modello dei diritti civili compare solo nel 21% dei post. 

Baffi: Questi tre frame sono quelli maggiormente rappresentati e già presenti nei media tradizionali, studiati fin dagli anni ’90. La ricerca conferma che anche nei social, anche da parte di genitori attivisti che affermano di voler cambiare la narrazione e la rappresentazione della disabilità in realtà questi frame sono ancora quelli più utilizzati, in particolare il modello della patologia sociale: c’è ancora cioè la rappresentazione di un disabile che in qualche modo va compatito, si mostra il lato più pietistico. Un altro modello – che è un po’ il suo opposto, – è quello del super crip, del superdisabile, di quel disabile che riesce a fare cose straordinarie anche per le persone senza disabilità. In realtà anche questo è un modello negativo, qualcosa di diverso dalla rappresentazione di una normalità. Solo per ultimo è presente il modello dei diritti civili, che è il modello appunto che vede la persona con disabilità come un cittadino in grado di lottare per i propri diritti, come tutti gli altri. Quindi la ricerca purtroppo conferma l’esistenza di questi modelli comunicativi già vecchi: i nuovi influencer non apportano nessun nuovo contenuto.

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Non si tratta di dare un giudizio sulle persone, ma se decidi di avere una posizione pubblica, di diventare un pezzo della rappresentazione sociale della disabilità nella società… inevitabilmente le tue responsabilità aumentano

Binotto: È qualcosa che accade sempre nella comunicazione. Il fatto che noi continuiamo a negare o a criticare un modello di comunicazione o delle metafore, rafforza in realtà quel modello perché passa la metafora, il modello, non la sua negazione. Prendiamo ad esempio il concetto di bambino speciale. Tutti lo vivono con fastidio e dicono che vogliono decostruire quel tipo di linguaggio: bene. Però un linguaggio non si decostruisce continuando a dire “I nostri figli non sono bambini speciali, non chiamateci bambini speciali”, perché in quel modo, pur negandolo, rafforziamo il concetto, anzi lo facciamo passare anche a chi magari non lo aveva in mente. Un modello comunicativo realmente nuovo ha bisogno di nuove immagini, nuove proposte, muove metafore…

Ricorrono le metafore legate al guerriero, alla battaglia, anche del caregiver di enfatizza la fatica (che è reale, ovviamente) e – dite – la «felicità ostentata».

Binotto: Si parla di una vita con una organizzazione quasi militare, della nebbia, della difficoltà di trovare una luce, della vita in salita. Torna sempre il tema della battaglia e della guerra. Quando si parla di inclusione scolastica, l’attenzione è posta sempre sul singolo, sull’individuo che ce la può fare nonostante tutto. Non c’è mai un’attenzione all’istituzione, alla forma del gruppo, all’aspetto cooperativo della scuola. Ci sono quasi sempre il bambino o il genitore come eroi solitari che combattono contro questa ingiustizia – la disabilità – che gli è capitata.

Un linguaggio non si decostruisce continuando a dire “I nostri figli non sono bambini speciali”, perché in quel modo, pur negandolo, rafforziamo il concetto. Un modello comunicativo realmente nuovo ha bisogno di nuove immagini, nuove proposte, muove metafore…

È un discorso legato all’aspetto commerciale dei profili, che affrontate, o semplicemente la questione è che a tutti piace avere più like che meno?

Binotto: Ci sono entrambe le questioni e sono collegate. C’è una cultura e una situazione oggettiva per cui l’esperienza della disabilità ti porta un po’ a pensarla in questo modo, perché è vero che la quotidianità è piena di sfide e di difficoltà. Quando poi ci sono situazioni complesse dal punto di vista sanitario è naturale che ci sia una grossa fatica: allora c’è il desiderio di pensarsi come qualcuno che sta reagendo bene, la spinta a usare i social per dare forza agli altri, per trarre qualcosa di positivo dalla situazione, nonostante tutto. Ci sono tutte le buone ragioni del mondo per comportarsi così. Poi c’è la logica della piattaforma, che è una logica spettacolare: purtroppo negli anni stiamo scoprendo che è molto simile alla logica spettacolare dei media tradizionali, che è un po’ una trappola, perché l’unico modo per emergere è quello di alzare i toni, di accentuare gli elementi patemici. È la stessa cosa che accade nei talk show televisivi. Sono elementi veramente presenti nelle vite di queste famiglie, che vengono premiati dalla logica della piattaforma e quindi fatalmente vengono rinforzari, anche perché l’egagement diventa un modo per avere anche aiuti economici che purtroppo, per le condizioni del welfare, per molte famiglie sono necessari. Quindi è un circolo vizioso o virtuoso, dipende dal punto di vista. Quello che ci preoccupa di più è il combinarsi di queste due logiche, quella della piattaforma e quella di una razionalità neoliberale molto diffusa la nostra società per cui di fronte alle difficoltà bisogna reagire individualmente e l’unico modo per sollecitare gli altri è crearsi delle community. Non esiste un piano pubblico di rivendicazione dei diritti o di risoluzione collettiva dei problemi.

Questo ci porta chiaramente sul piano dell’attivismo…

Binotto: Se vent’anni fa, trent’anni fa o anche cento anni fa la presenza di un problema produceva una mobilitazione pubblica e collettiva che tendeva ad andare verso la rivendicazione dei diritti o verso la risoluzione collettiva dei problemi, adesso abbiamo dei profili individuali, più o meno famosi in termini di livello di notorietà raggiunta e di larghezza della community, che in qualche modo forse portano aiuto a quelle specifiche famiglie e ragazzi con disabilità o malattie gravi, ma non risolvono la situazione di tutti gli altri che non hanno un genitore in grado di fare queste scelte, di reggere questa visibilità.

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E le associazioni?

Binotto: Le associazioni vivono questi processi con difficoltà, si trovano svuotate, guardano a questi soggetti come dei “concorrenti”. Immaginate la differenza, se un certo numero di questi influencer avesse usato la sua notorietà e attivismo sui social per aiutare i movimenti e le associazioni che si occupano di questi temi, avesse invitato a fare volontariato… A volte da queste esperienze nascono associazioni, ma sono tutte piccole. Il tema delle micro organizzazioni e della fatica a lavorare insieme peraltro contraddistingue un po’ tutto il Terzo settore italiano.

Se trent’anni fa la presenza di un problema produceva una mobilitazione pubblica e collettiva che tendeva ad andare verso la rivendicazione dei diritti o verso la risoluzione collettiva dei problemi, adesso abbiamo dei profili individuali, con più o meno notorietà e larghezza della community, che forse portano aiuto a quelle specifiche famiglie ma non risolvono la situazione di tutti gli altri

Disabilità o meno, la capacità di questi profili social di trasformare in impegno civico l’engagement digitale delle loro community qual è?

Binotto: È bassissima. È una cosa che c’è in tantissimi ambiti. È attivismo molto individualizzato, molto performativo, al massimo – quando si riesce – è un attivismo che genera connessioni attraverso i social. a Nel caso della disabilità c’è la complicazione ulteriore che non solo non stai portando energie alle rivendicazioni collettive, ma stai costruendo una rappresentazione della disabilità che il movimento della disabilità ha superato da decenni. È molto simile a quello che succede, per esempio, quando si parla della “pornografia del dolore” per la comunicazione finalizzata alla raccolta fondi che fanno alcune ong. È proprio controproducente. Ovviamente tutto non è detto che sia un destino, si può cambiare.

Quando parlava delle difficili relazioni con le grandi organizzazioni… A me pare di vedere, nel mondo della disabilità, una crescente insofferenza di piccole organizzazioni verso realtà grandi, storiche, istituzionalizzate, accusate di essere troppo contigue all’istituzione di turno, troppo poco battagliere. C’è una nuova stagione della rappresentatività, delle famiglie delle persone con disabilità, di ciò che hanno significato negli anni? Che ruolo hanno le famiglie oggi dentro il movimento delle persone con disabilità?

Binotto: Sono discorsi e obiezioni che conosco bene come genitore che fa parte di una piccola associazione. In generale, mi sento di dire che da un lato è vero che c’è il problema delle famiglie che tendono a farsi l’associazione da sé e a criticare le realtà più istituzionalizzate, ma dall’altra parte c’è un ritardo delle associazioni storiche di valorizzare la capacità delle persone che, per esempio, sono attive sui social, di farle entrare nei meccanismi dell’organizzazione, di dargli voce. Le associazioni, almeno per quelle che conosco io, tendono a funzionare come gli anni ’60, prima della rivoluzione digitale. C’è un pezzo di responsabilità di questo mondo che non ha saputo intercettare e continua a guardare con diffidenza – perché la diffidenza è reciproca – un altro tipo di attivismo anziché vederlo come potenziali alleati o trovare il modo di dialogare con questi genitori che aprono il loro gruppo Facebook o la loro pagina Instagram. C’è un meccanismo perverso: più le associazioni si arroccano e meno riescono a intercettare i bisogni; più cercano di avvicinarsi alle istituzioni e meno sono capaci di avere forza per proporre le riforme necessarie o l’attuazione delle leggi, che è il problema vero in Italia. Quella attuale in realtà è una situazione complessa tanto per le associazioni quanto per famiglie, perché poi le famiglie si ritrovano a mettere tutti nel mucchio, a prendersela contemporaneamente col governo e con le associazioni che dovrebbero tutelarle, ma non hanno nessuno strumento per influenzare il discorso pubblico o per essere parte di questo processo.

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Sta vincendo il fai da te, il dire “smetto di cercare una risposta istituzionale per tutti e mi organizzo per avere io i servizi che mi servono, come posso”. L’universalismo dei diritti e dei servizi si sta perdendo

E allora che fanno le famiglie oggi in Italia?

Binotto: Purtroppo quello che sta succedendo è che vince il fai da te, vince il dire “smetto di cercare di avere una risposta istituzionale per tutti e mi organizzo per avere io i servizi che mi servono, come posso”. Quello che sta succedendo sostanzialmente è la privatizzazione dei servizi. E il Terzo settore che negli anni Settanta ha dato una grande spinta all’innovazione dei servizi, con tante sperimentazioni, adesso invece si accontenta di essere un aiuto per quelle famiglie che ce la fanno. Ma l’universalismo dei diritti e dei servizi si sta perdendo.

Conclusioni amare, quindi…

Binotto: Ma realistiche. In realtà delle potenzialità ci sono, perché la capacità di voice è sempre positiva. Una delle realtà che abbiamo studiato è quella di una persona che anche grazie a questo impegno sui social è diventato assessore in una grande città (Luca Trapanese, assessore a Napoli, ndr). Quindi in qualche modo le piattaforme e i social media sono un modo per fare attivismo e per dare voce a realtà – come quella dei caregivers – che non vengono riconosciuti. Si tratta di milioni di persone che si dedicano ogni giorno alla cura e che non avrebbero alcuna voce senza questi strumenti: ci sono anche tanti messaggi positivi che circolano, tante community che in qualche modo si attivano. È comunque qualcosa di interessante quello che sta succedendo.

Baffi: C’è del potenziale, ma andrebbe un po’ accantonata la parte individualistica a favore di quella più cooperativa. Quindi magari, piuttosto che centrare tutte le attenzioni sul singolo bambino o sul singolo genitore, trovare il modo per creare un vero movimento, che faccia parte di un movimento più grande.

In apertura, Luca Trapanese e Alba sul set del film “Nata per te” di Fabio Mollo, ora su Netflix. Foto di Gianni Fiorito

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