Rino Tommasi tra lo show della boxe e la nostra educazione sentimentale al tennis

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Direttore, cronista, scopritore di talenti, maestro. Dal ring alla cattedrale, è riuscito a rendere popolare uno sport che in Italia non aveva motivi per esserlo. Fra improvvisazioni, aneddotica e percentuali: il contorno che faceva parte dello show, tutto in diretta


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Sono stati, lui e Clerici, il maestro Manzi della racchetta, il dream team prima che esistesse il dream team. Erano anni di vacche magre (ai loro tempi si poteva ancora dire), i tennisti italiani degni di nota erano pochini, l’eccellenza erano loro, Gianni Clerici e Rino Tommasi, che hanno educato al tennis un popolo di calciofili. Statistiche e divagazioni, commento tecnico e entertainment, “Bongo Bongo Bongo stare bene solo in Congo” e circoletti rossi, uno dei tanti neologismi made in Rino. Centoquarantanove Slam, tredici edizioni dei Giochi olimpici, sette Superbowl, oltre 400 incontri di boxe che valevano il titolo mondiale e Tommasi che alle quattro del mattino dava il buongiorno agli appassionati o a chi si appassionava principalmente per merito suo.

 

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Un giorno gli fecero commentare un match di pugilato femminile, lui cominciò così la sua diretta: “E’ la prima volta che assisto a un incontro tra donne, non avrei mai voluto vedere questo momento”. Dal ring alla cattedrale, Rino Tommasi è riuscito a rendere popolare uno sport che in Italia non aveva motivi per esserlo. Non c’erano i campioni, i campioni erano loro. Facile inchiodare gli spettatori allo schermo durante le finali di Wimbledon, più difficile convincerli a seguirti dall’inizio alla fine durante i primi turni a senso unico dei tornei. 

Era lì che venivano fuori le leggende, i fuoripista, le improvvisazioni, l’aneddotica e le percentuali, il contorno che faceva parte dello show e, nella maggior parte dei casi, era preferibile ad esso. Durante i primi giorni dei tornei i telespettatori vivevano i momenti di pausa del gioco come una benedizione, perché lì i telecronisti diventavano showmen in purezza, intrattenitori che, senza volerlo ma con il talento per farlo, si sostituivano al match. 

Us Open 2002, primo turno maschile, Pete Sampras contro Alberto Portas. La partita non riserva sorprese, i due telecronisti si ritrovano a parlare chissà perché del doppio misto. Secondo Tommasi è una competizione che non ha senso, andrebbe abolita. Clerici non è d’accordo, gli dice che il doppio misto ha contribuito alla crescita del tennis. Tommasi replica: “Sì, ma solo se l’uomo e la donna si incontrano a fine match e insieme concepiscono un baby tennista”. Tutto in diretta

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Sono stati loro il nostro alfabeto del tennis, l’educazione sentimentale ma anche tecnica ai gesti bianchi. Voci inconfondibili, diversi in tutto: Clerici era il Dottor Divago, Tommasi era ComputerRino ed era vero perché prima dell’onnipresenza del pc, il pc era la sua testa; carta, penna e centinaia di partite viste e ricordate. Una volta, un giornalista straniero gli chiede quando è nato un tal tennista. Lui contro ogni pronostico non lo ricorda. Il collega gli dice: “Ah bè, se non lo ricordi tu, vuol dire che non è mai nato”

Rino Tommasi è stato direttore, cronista, scopritore di talenti, maestro, anzi, come disse Gianni Brera Professore, scrittore oltre che telecronista. Ha formato giornalisti e spettatori, accompagnandoli in territori sconosciuti, sull’erba di Wimbledon per esempio, dove i “nastri azzurri” (altra sua licenza) non bastavano mai. 

La coppia più bella del nostro mondo ha fatto innamorare gli italiani di uno sport che non aveva campioni o campioncini. “Il tifo è una bruttissima malattia”, diceva e anche questo fa parte del codice Tennis che ci ha lasciato. “Tennis, Italian Style” titolava nel 2002 il magazine Time. E lo stile era quello di Clerici e Tommasi, non certo quello che si vedeva in campo, in campo di made in Italy c’era ben poco di cui parlare. 

Gianni Clerici e Rino Tommasi sono stati per decenni la gloria del tennis italiano, cantastorie di un popolo che di per sé non aveva nulla da cantare (ma per loro non era importante, perché come tutti i veri amanti, amavano il gioco non la nazione di appartenenza). E forse non è così assurdo pensare che in fondo, quello che stiamo vivendo oggi, sia uno stranissimo passaggio di testimone, dalla cabina di commento al campo Centrale. Come se, con un tempismo purtroppo imperfetto, nel giro di qualche decennio, siano stati proprio loro, Clerici e Tommasi, a trasformare un paese di semianalfabeti negli artefici del Rinascimento.





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