M. Trimboli | Responsabilità medica e leggi statistiche | Sistema Penale

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Cass., Sez. IV, 2 ottobre 2024 (dep. 11 dicembre 2024), n. 45399, Pres. Di Salvo, Rel. Ranaldi

1. Con la sentenza che si segnala, la Corte di cassazione si è pronunciata su una questione di rilevante interesse in tema di responsabilità medica e utilizzo di coefficienti di probabilità statistica nell’accertamento del nesso causale, ribadendo  che «non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica di riferimento la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile». In particolare, trattandosi di un caso di cooperazione colposa omissiva, la Suprema Corte ha sottolineato che, in assenza di una precisa individuazione – all’interno della perizia medico legale espletata nella fase processuale – della causa della malattia che ha portato alla morte della persona offesa, risulta impossibile identificare ex ante la condotta alternativa utile a dimostrare che l’evento lesivo non si sarebbe verificato.

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2. In estrema sintesi, questi i fatti che sono alla base della decisione in commento.

Gli imputati erano stati accusati di aver colposamente cagionato il decesso di una giovane donna, avvenuto a seguito di uno shock settico da colite pseudomembranosa.

In primo grado, il giudice aveva ritenuto responsabili in concorso il medico curante, per l’omessa esecuzione di un esame obiettivo volto a verificare i segni dei diversi organi e apparati della paziente e l’omissione di indicazioni utili per lo svolgimento di indagini cliniche; l’infermiera del 118, per non aver disposto il trasferimento ospedaliero nonostante le condizioni critiche della paziente; un’altra infermiera preposta al triage del pronto soccorso, per aver erroneamente classificato la paziente come codice verde; e il medico di guardia del pronto soccorso, per non aver rilevato tempestivamente la gravità delle condizioni della donna, ritardando così l’intervento chirurgico necessario.

La Corte d’Appello di Roma, nel dichiarare estinto per prescrizione il reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p. contestato agli imputati, confermava le statuizioni civili, anche nei confronti dei responsabili civili. Avverso la sentenza di secondo grado, gli imputati e il responsabile civile hanno proposto distinti ricorsi per cassazione. I ricorrenti hanno censurato, tra l’altro, vizi giuridici in merito alla ricostruzione del nesso di causalità tra le condotte contestate e l’evento letale e profili di illogicità nelle argomentazioni della Corte distrettuale, che avrebbe disatteso le conclusioni peritali emerse nel corso del processo. Tali perizie hanno infatti evidenziato la difficoltà di pervenire a una diagnosi precisa, in sede di pronto soccorso, di colite pseudomembranosa dovuta a infezione da Clostridium Difficile. La colite pseudomembranosa è una patologia che può essere determinata da diverse cause e, nel processo, non è emersa prova certa circa il tipo di infezione che l’ha originata. Così, i difensori hanno rilevato come, nell’ambito della verifica del nesso causale tra omissione ed evento, l’assenza di un accertamento sulla causa della colite impedisca di individuare ex ante una condotta alternativa che avrebbe potuto evitare la realizzazione dell’evento morte.

 

3. La Corte accoglie il ricorso e concentra la propria analisi sulle modalità di accertamento del nesso causale tra omissione ed evento lesivo.

 

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3.1. I giudici di legittimità muovono, anzitutto, dal principio generale che regola il rapporto di causalità tra azione (o omissione) ed evento, sottolineando che «è causa di un evento quell’antecedente senza il quale l’evento non si sarebbe verificato»[1]. Successivamente, viene richiamata la nozione di giudizio controfattuale, identificandolo come «il fondamento della teoria condizionalistica» e specificando che tale giudizio consiste in «un’operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica dell’imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata la medesima conseguenza: se così fosse, la condotta dell’imputato non costituirebbe causa dell’evento»[2]

Rilevano poi che, ai fini della formulazione del giudizio controfattuale nei casi di “causalità omissiva”, occorre prima accertare la sequenza fattuale effettivamente occorsa, attraverso un giudizio esplicativo che ricostruisca con precisione gli eventi che hanno condotto all’evento lesivo. Solo dopo tale ricostruzione è possibile formulare il giudizio controfattuale, ipotizzando l’esecuzione della condotta doverosa e verificando se l’evento sarebbe stato evitato o almeno differito[3].

In questo contesto, la Cassazione approfondisce le modalità di accertamento del nesso causale nell’ambito della responsabilità medica, precisando che, per accertare l’esistenza di tale nesso, è indispensabile determinare il momento iniziale e l’evoluzione della malattia. Infatti, solo l’individuazione della sequenza eziologica, e quindi della genesi e del decorso della malattia, consente di valutare se l’adempimento della condotta dovuta da parte del sanitario avrebbe potuto evitare o ritardare l’evento lesivo[4].

 

3.2. La Suprema Corte richiama, inoltre, i principi elaborati dalle Sezioni Unite nella nota sentenza Franzese[5] e precisa: «il nesso causale, sul piano del giudizio controfattuale, può essere ravvisato quando sulla base di una regola di esperienza o di una legge scientifica (universale o statistica) si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva. Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice vede verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosicché, all’esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto grado di credibilità razionale»[6].

Nel sottolineare ulteriormente l’importanza della formulazione del giudizio di alta probabilità logica nell’accertamento del rapporto di causalità tra omissione ed evento, la quarta sezione della Cassazione richiama anche la sentenza ThyssenKrupp[7]. In tale pronuncia, infatti, è stato «sviluppato un modello epistemologico che delinea un modello di indagine causale capace di integrare l’ipotesi esplicativa delle serie causali degli accadimenti e la concreta caratterizzazione del fatto storico: nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto»[8].

 

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3.3. Passando al caso di specie, e applicando ad esso tutti i principi sopra richiamati, la Cassazione rileva che i periti non sono stati in grado di identificare con precisione le cause di insorgenza della patologia di cui era affetta la paziente e i tempi della sua evoluzione[9]. Perciò, in assenza di un approfondito giudizio esplicativo, risulta impossibile individuare con certezza quali approfondimenti diagnostici i sanitari avrebbero dovuto effettuare e – soprattutto – verificare se questi avrebbero consentito di intraprendere un percorso terapeutico idoneo ad impedire o ritardare il decesso della donna, elaborando così un valido giudizio controfattuale.

I giudici di legittimità, dunque, criticano puntualmente il percorso argomentativo seguito dai giudici di merito, i quali hanno risposto al quesito: “Da quale momento poteva pretendersi dai sanitari intervenuti l’effettuazione di mirati accertamenti diagnostici?”, in modo molto semplicistico: «prima si interviene, meglio è»[10]. In questo modo, osserva la Corte, si abbandona «lo schema condizionalistico seguito dalla giurisprudenza di legittimità degli ultimi venti anni, per affidarsi alla superata teoria dell’aumento del rischio o della perdita di chances, espressa da un indirizzo giurisprudenziale esauritosi nei primi anni duemila, in base al quale, nella verifica del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e la lesione del bene della vita del paziente, occorreva privilegiare un criterio meramente probabilistico, [fondato] sulle possibilità di successo del comportamento alternativo. Per offrire la prova del fatto il giudice non può attingere a criteri di mera probabilità statistica, ma deve fare riferimento al criterio della probabilità logica»[11].

 

4. La pronuncia in commento merita di essere segnalata perché ripercorre in modo chiaro e rigoroso i principi che governano l’accertamento del nesso causale tra omissione ed evento.

I giudici di legittimità ricordano innanzitutto che la struttura del rapporto di causalità nel reato omissivo improprio è diversa dalla struttura dello stesso nel reato commissivo. Infatti, da una parte, nel reato commissivo, il rapporto di causalità consiste nella causazione di un evento e può essere definito una «relazione reale tra accadimenti: si configura quando l’azione è un antecedente storico che non può essere eliminato mentalmente senza che l’evento venga meno»[12]. D’altra parte, nel reato omissivo improprio, il rapporto di causalità – in base al disposto dell’art. 40 co. 2 c.p. – consiste nel mancato impedimento di un evento che si aveva l’obbligo giuridico di impedire e il suo accertamento esige, dunque, un giudizio ipotetico: il nesso si configura quando «l’azione che è stata omessa, se fosse stata compiuta, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento»[13].

Proprio perché strutturalmente diverso dal nesso di causalità nel reato commissivo, il rapporto di causalità nel reato omissivo richiede – a differenza del primo – una duplice indagine: in primis, occorre accertare un «rapporto di causalità tra un dato evento antecedente, [che può essere] un’azione umana o un fattore naturale, e un dato evento concreto»[14] (c.d. causalità reale); in secundis, è necessario formulare un giudizio controfattuale tenendo conto della struttura del reato omissivo improprio e «chiedersi se, aggiungendo mentalmente l’azione doverosa omessa, ne sarebbe seguita una serie di modificazioni della realtà che avrebbero bloccato il processo causale sfociato nell’evento»[15] (c.d. causalità ipotetica)[16].

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Tale duplice indagine si rivela necessaria, secondo la giurisprudenza, specialmente nel contesto dell’attività medico-chirurgica. Ad esempio, nel caso di una paziente deceduta a seguito del distacco della placenta complicato da uno shock emorragico[17] la Cassazione ha affermato che «nella ricostruzione del nesso eziologico non si può prescindere da tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento: solo conoscendo tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici, il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, è poi possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta ma omessa, l’evento lesivo  sarebbe stato evitato o si sarebbe verificato in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva»[18]. È esattamente questo il procedimento che, secondo la Suprema Corte, doveva essere seguito nel caso di specie: accertare prima la causalità reale, dunque la genesi e l’evoluzione della patologia di cui era affetta la giovane donna, poi sfociata nella colite pseudomembranosa che ha innescato l’evento morte); e, solo dopo, accertare la causalità ipotetica, ovvero verificare la efficacia impeditiva della condotta doverosa omessa dal sanitario, mediante la formulazione di un corretto giudizio controfattuale.

Infine, la pronuncia in esame si fa particolarmente apprezzare per l’applicazione rigorosa dei principi sanciti nelle note sentenze Franzese e ThyssenKrupp, in particolare quelli relativi all’utilizzo dei coefficienti di probabilità statistica e alla (necessaria) formulazione di un giudizio di alta probabilità logica nell’accertamento del nesso causale tra omissione ed evento.

Per valutare – nell’ambito del giudizio controfattuale – l’efficacia impeditiva dell’azione doverosa omessa, si ricorre all’impiego delle leggi scientifiche: queste ultime devono dimostrare come, nel caso di specie, l’azione omessa avrebbe interrotto il processo causale e, dunque, evitato l’evento lesivo. Il riferimento alle leggi scientifiche, e in particolare alle leggi statistiche, come noto, ha sollevato in passato un dibattito sul grado di probabilità richiesto perché una determinata condotta possa considerarsi condizione necessaria dell’evento. L’orientamento prevalente in giurisprudenza è oggi quello delle sentenze Franzese e ThyssenKrupp: il rapporto di causalità non può basarsi unicamente sul coefficiente di probabilità statistica (che può rivelarsi anche basso), ma deve essere verificato alla luce della probabilità logica (che invece deve sempre essere alta) fondata sulle peculiarità del fatto concreto[19]. Nella sentenza che si sta annotando, la Suprema Corte censura la decisione della Corte d’Appello nella parte in cui non si è fatto ricorso alla probabilità logica: formulando il giudizio controfattuale, la Corte distrettuale si è affidata alla sola probabilità statistica, avvalendosi della teoria dell’aumento del rischio, ormai superata, anziché considerare le specificità del caso concreto e, dunque, l’effettiva incidenza causale dell’azione doverosa omessa. È chiara la ragione per la quale non è possibile condividere l’approccio adottato dalla Corte d’Appello: si finirebbe per sostituire all’omesso impedimento dell’evento l’omessa diminuzione del rischio del suo verificarsi e l’esito sarebbe quello di trasformare un reato di evento in un reato di pericolo[20].

 

 

 

[1] Considerato in diritto, § 3

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[3] Cass., Sez. IV, n. 416/2021; Cass., Sez. IV, n. 23339/2013; nonché Cass., Sez. IV, n. 43459/2012

[4] Cass., Sez. IV, n. 26568/2019; Cass., Sez. IV, n. 25233/2004

[5] Cass., Sez. Un., n. 30328/2002

[6] Considerato in diritto, § 3

[7] Cass., Sez. Un, n. 38343/2014

[8] Considerato in diritto, § 3

[9] Considerato in diritto, § 6, laddove la Cassazione afferma: «Gli stessi periti non sono stati in grado di individuare le cause di insorgenza e i tempi di evoluzione della patologia, definita fulminante e di difficile diagnosi dagli stessi esperti»

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[11] Considerato in diritto, § 6 e § 7. Nel sviluppare queste argomentazioni, la Suprema Corte fa riferimento a Cass., Sez. IV, n. 24372/2019; Cass., Sez. Un, n. 38343 del 24/4/2014; Cass., Sez. Un., n. 30328/2002. Vengono successivamente richiamate anche le pronunce Cass., Sez. IV, n. 30229 del 11/5/2021; Sez. IV, n. 5901 del 18/1/2019

[12] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2021, p. 288

[17]G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, op. cit., p. 288

[18] Cass., Sez. IV, n. 12894/2006. Di particolare rilievo, per la somiglianza con il fatto oggetto della pronuncia in esame, anche Cass., Sez. IV, n. 25233/2005: in un caso di diffusione di epatite B, che aveva determinato il decesso di diversi pazienti ricoverati in un ospedale, la Corte ha stabilito che, non essendo possibile individuare le modalità precise di trasmissione del virus, ovvero il meccanismo reale che aveva prodotto l’evento lesivo, non si poteva valutare l’efficacia impeditiva dell’azione omessa

[19] G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, op. cit., p. 289 ss.

[20] In argomento G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, op. cit., p. 290



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