Parlare di imposte e tasse se non per prometterne (o rivendicarne) una riduzione è esercizio autolesionistico: nel migliore dei casi se ne ricavano sarcasmi e improperi; nel peggiore, minacce o oltre. Tutt’al più, lo si può fare attraverso il lascito intellettuale dei «padri nobili», come Einaudi, De Gasperi, e anche Matteotti, come ha bene illustrato Ernesto Maria Ruffini su questo giornale un paio di giorni fa, anche mostrandone la grande attualità. Il loro pensiero saggio e lungimirante permette però sempre agli oppositori il ricorso all’espediente di dire “… nobili principi, certo, ma nel frattempo la situazione è cambiata”.
Eppure, le imposte sono uno dei pilastri di una società e il modo in cui sono congegnate e distribuite tra i contribuenti determina non soltanto il grado di coesione e di (dis)eguaglianza tra i cittadini ma anche una minore o maggiore efficienza e dinamicità del sistema economico, una maggiore o minore crescita della ricchezza. Determina però anche il grado di simpatia o di antipatia verso la classe politica, che in effetti tende a evitare di parlarne in modo trasparente. Ricordiamo tutti (o forse no) che fine fece l’uscita del viceministro Leo a proposito dell’uso del «redditometro» per stanare gli evasori: con l’ira di Meloni, anche data la prossimità delle elezioni regionali del 2024, e la rapida messa nel congelatore, o nel dimenticatoio, della bozza di decreto. E quando proprio non si riesce a evitare un aumento delle imposte – magari per rispettare vincoli europei liberamente sottoscritti – si cerca di camuffarlo in modo che i cittadini non se ne accorgano.
Così, per esempio, si evita di dire che il positivo giudizio espresso dalla rivista britannica The Banker sul ministro Giorgetti («Ministro delle Finanze dell’anno») è anche dovuto al fatto che egli sia riuscito a «contenere» il disavanzo pubblico – trovando le risorse per confermare a regime la riduzione del carico fiscale a vantaggio dei redditi medio-bassi (principalmente da lavoro dipendente) già prevista per il 2024 – anche attraverso una, sia pur lieve riduzione delle detrazioni sui redditi medio-alti e un taglio a trasferimenti e sussidi non necessariamente destinati ai più poveri. Per la carità, una misura di “redistribuzione” nel verso giusto, lontanamente alla Robin Hood (si prende da qualcuno benestante per dare a qualcun altro che ne ha maggiore bisogno) sulla quale si può anche essere d’accordo (e personalmente lo sono) ma che, proprio per questo, avrebbe dovuto essere resa trasparente. E suonare all’incirca così: «Non possiamo – e non potremo negli anni a venire – ridurre le imposte in modo generalizzato perché “i numeri”, cioè le condizioni della finanza pubblica, non lo consentono, ma le riduciamo per i meno abbienti e finanziamo questa riduzione anche con un (piccolo) maggiore carico fiscale sui più ricchi». Lo Stato infatti non è un privato, come Robin che «rubava» ai ricchi per dare ai poveri; lo Stato è l’istituzione preposta esattamente a questo compito.
E invece sull’aumento, ora e verosimilmente in prospettiva, si è sorvolato giacché parlarne è considerato un azzardo politico». Ogni parte politica ha le sue zone d’ombra e quella del fisco lo è in misura spropositata per la destra, ossessionata dal non volere «mettere le mani nelle tasche degli italiani», come se aumentare il debito pubblico – che è l’alternativa all’aumento delle imposte quando non si vuole o non si riesce a ridurre la spesa – non fosse un mettere le mani nelle tasche, per ora vuote, delle generazioni giovani e future, che tanto non protestano.
Questa avversione politica per il fisco si basa su due presupposti non necessariamente corretti. In primo luogo, si considera che l’imposizione soffochi l’iniziativa privata e dunque riduca la crescita potenziale. Pertanto, l’aumento delle imposte (o una loro ristrutturazione, per esempio riducendo quelle sul lavoro ed aumentando quelle sul capitale) fa male all’economia perché il privato, lasciato tranquillamente a lavorare, risparmiare e, soprattutto, investire sarebbe sempre in grado di produrre ricchezza più e meglio di quanto sappia fare lo Stato. Ora, a parte che il privato non esercita normalmente attività senza fini di lucro (salvo naturalmente il volontariato e la beneficenza»), molti casi di liberalizzazioni e di privatizzazioni (dall’acqua ai trasporti, alla previdenza) hanno dimostrato che ciò non è sempre vero. Inoltre, per quanto i servizi pubblici siano talvolta inefficienti e inadeguati, chi mai vorrebbe un ritorno generalizzato all’istruzione o alla sanità privata? Non è invece il caso di rifinanziarle, magari anche ricorrendo a una maggiore imposizione?
Il secondo presupposto è che gli elettori siano sempre contrari ad aumenti di imposte. Anche questo non è necessariamente vero. I cittadini usufruiscono dei beni e servizi pubblici; se ne sono soddisfatti tenderanno a lamentarsi meno del prelievo fiscale, soprattutto se lo percepiscono ben distribuito tra i contribuenti; se ritengono invece che i servizi siano scadenti e le imposte mal distribuite, anche con una certa tolleranza verso l’evasione e l’elusione, le considereranno uno sperpero di risorse o, peggio, una «ruberia» e cercheranno, potendolo, di evitarle sia evadendo (perché l’evasione non è considerata un «peccato» se la pubblica amministrazione è inefficiente e crea ingiustizie e privilegi), sia sostenendo i partiti che promettono di alleggerirle. Il che crea un circolo vizioso dal quale si può uscire soltanto ricorrendo, per l’appunto, alla saggezza e alla lungimiranza dei «padri nobili» e ai loro insegnamenti. Ma chi vuole sentirli in tempi di «mordi e fuggi»?
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