Gli “stati di agitazione” dell’Università

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Gli “stati di agitazione” per l’università sono un segnale importante. Dopo tanti anni le diverse componenti del mondo accademico, dagli studenti al personale docente (di ruolo o meno), hanno manifestato insieme contro una nuova riduzione delle risorse destinate alle università pubbliche. Un risultato significativo perché, dalla riforma Gelmini in poi, i diversi interventi legislativi che hanno avuto a oggetto il sistema universitario nazionale sono stati difesi da chi li promuoveva ricorrendo sempre allo stesso schema: contrappore gli interessi di chi era già entrato a far parte in modo stabile del corpo accademico a quelli di chi aspirava a farlo. Suggerendo che le riforme fossero necessarie per purgare l’università dai “fannulloni” in modo da fare spazio ai “meritevoli”. L’introduzione di un nuove modalità di finanziamento dell’università, basate su un meccanismo di premi e punizioni messo a punto da un’agenzia indipendente, l’Anvur, dotata di poteri così ampi da erodere quelli dello stesso ministero competente, venne difesa da un consenso ampio e trasversale, che teneva insieme non solo buona parte dei partiti politici, ma anche i principali organi di stampa e le associazioni imprenditoriali. Chi tentava di opporsi veniva immediatamente bollato come un difensore dei “fannulloni”, un nemico del progresso e un ostacolo per la valorizzazione dei giovani.

Per questo è importante che oggi in prima fila nella protesta contro i nuovi tagli ci siano i ricercatori non ancora di ruolo (i “precari”, come si dice qui da noi). Questa partecipazione massiccia da parte delle nuove generazioni ci dice che la nudità del re è ormai visibile a tutti, e che l’idea che la privatizzazione strisciante del sistema universitario italiano fosse necessaria per fare spazio agli esclusi era soltanto un dispositivo ideologico per realizzare un obiettivo politico che aveva poche possibilità di essere accettato dall’opinione pubblica se essa fosse stata informata in modo corretto su quale fosse la posta in gioco delle “riforme”. Nei prossimi mesi vedremo se gli “stati di agitazione” avranno l’effetto di promuovere nell’opinione pubblica una nuova consapevolezza del pericolo che l’Italia stia per perdere una delle più grandi conquiste sociali del secondo dopoguerra: un sistema di alta formazione plurale e inclusivo, in grado non solo di formare tecnici e professionisti, ma anche di alimentare la cultura pubblica dinamica che costituisce un requisito essenziale della democrazia.

Anche se oggi sotto accusa è l’attuale maggioranza di governo, responsabile degli ultimi tagli al bilancio delle università, è bene ricordare che questo intervento si inserisce in una tendenza consolidata che non ha avuto origine nel nostro paese. Le politiche di definanziamento delle università pubbliche, e i dispositivi bibliometrici che servono per giustificarle, sono state introdotte per la prima volta nel Regno Unito alla fine degli anni Ottanta dai governi conservatori. Con l’Education Act del 1988 i Tories sostituirono il sistema di finanziamento “consensuale” che aveva consentito l’espansione del sistema universitario pubblico britannico, che si apriva in questo modo a studenti provenienti dai ceti meno abbienti, e progressivamente anche ai figli degli immigrati, introducendo uno straordinario processo di rinnovamento delle classi dirigenti. Chi volesse comprendere l’importanza che quella stagione ha avuto sul piano sociale può leggere le bellissime pagine scritte dallo storico Tony Judt, figlio di immigrati ebrei provenienti dell’Europa dell’est. Judt spiega perché per uno come lui sarebbe stato probabilmente impossibile essere ammesso a Cambridge e avere una brillante carriera accademica se non ci fosse stato quel massiccio sostegno pubblico.

Finanziamenti e agevolazioni

Agricoltura

 

Quando i Conservatori cominciano il processo di strangolamento del sistema universitario pubblico britannico, portato avanti da allora da governi sia di destra sia di sinistra, l’accademia britannica non era un covo di “fannulloni”, ma un modello cui si guardava in tutto il mondo per i suoi risultati straordinari (come fece notare Ralf Dahrendorf). L’obiettivo dei nuovi sistemi di governance e di accountability introdotti allora, e perfezionati in seguito, era di subordinare la formazione e la ricerca pubblica alle esigenze del sistema produttivo. Tutto ciò che non poteva essere giustificato sulla base di una visione asfittica e miope della crescita economica andava scoraggiato. La libertà accademica, da secoli un principio cardine del sistema britannico, veniva in questo modo erosa (come vide con straordinaria lucidità lo storico Conrad Russell che ne scrisse in un libro denuncia nel 1993). Oggi le università britanniche sono allo stremo, costrette a abbassare gli standard per attirare più studenti (diminuiti ulteriormente per via della Brexit), e dipartimenti prestigiosi licenziano studiosi di valore e chiudono dipartimenti produttivi (soprattutto nei settori delle humanities) perché non possono più permettersi di tenerli in attività per via della penuria di risorse. Le politiche neoliberali implementate nel Regno Unito a partire dalla fine degli anni Ottanta sono il modello su cui si basano quelle italiane. Che in certi casi sono state peggiorate dall’acquiescenza del corpo accademico, che ha opposto finora una resistenza molto meno efficace di quella messa in piedi dai nostri colleghi britannici.

A che servono le università? Questa è la domanda che si poneva qualche anno fa lo storico di Cambridge Stefan Collini in uno dei migliori, e più documentati, libri sul disastro che è diventata l’università neoliberale. Questa, credo, sia anche la domanda che pongono gli “stati di agitazione” in Italia. Spetta alla società civile e alla politica dare una risposta.

Apparso anche su Il Manifesto del 21.12.2024



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