Anna Foa: dov’è finita l’etica ebraica?

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La strage del 7 ottobre 2023, perpetrata da Hamas ai danni di oltre 1200 israeliani, senza contare gli oltre 200 presi in ostaggio dai miliziani palestinesi, è stata il pretesto, da parte del governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu, per mettere in atto una vera e propria guerra di sterminio nei confronti della popolazione palestinese di Gaza. Una scelta che però potrebbe rivelarsi autodistruttiva per lo stesso Stato ebraico: lo sostiene in un suo recente libro, Il suicidio di Israele (edito da Laterza), Anna Foa, ebrea, già docente di storia moderna presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Con lei abbiamo affrontato il tema così complesso e delicato.

Professoressa, la torsione criminale che sta caratterizzando Israele nell’area mediorientale sta ponendo le basi, come lei sostiene, per un suo suicidio, o quanto meno per un futuro ancora più incerto. Ma non crede che il sionismo avesse già nel suo Dna i rischi di una svolta del genere?

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Il termine “torsione criminale” non mi appartiene. Questo non toglie che io consideri tutto quanto fatto dal governo Netanyahu, dopo il 7 ottobre 2023, come un attacco ingiustificato ai palestinesi e non a Hamas, e la distruzione della striscia di Gaza come un crimine di guerra. Per non parlare di quanto sta succedendo nella West Bank, di quanto molti israeliani definiscono senz’altro “pulizia etnica”. Sulla questione controversa dell’uso del termine “genocidio”, lascio che parlino le organizzazioni di giustizia internazionale delegate a questo. Ciò implica che io giudichi la strada intrapresa da Israele un suicidio: un suicidio militare, se non subito in prospettiva, e soprattutto un suicidio morale. Il cambiamento delle regole d’ingaggio dell’esercito, denunciato recentemente dal “New York Times” in un articolo molto documentato, va in questa direzione. Sulla questione se il sionismo avesse già nel suo Dna il rischio di una svolta del genere, è possibile, soprattutto se si guarda alla contraddizione esistente tra uno “Stato degli ebrei” e uno “Stato democratico”, e alla legge sul suprematismo ebraico varata nel 2018. Ma rischio non vuol dire svolta necessaria, e la storia non è una macchina che macina tutto sulla sua strada. Anche la storia di Israele e dei suoi molteplici sionismi ha aperto possibilità. Che ora non esistano, non vuol dire che non possano esserci dei cambiamenti, e che non si possa alla fine andare verso una vera democrazia, valida sia per gli ebrei sia per i palestinesi.

Ilan Pappé sostiene che Israele altro non sia che un pezzo d’Europa incastonato in Medio Oriente. Lo dimostrerebbe banalmente anche lo sport, visto che nelle competizioni calcistiche europee giocano le squadre israeliane. È una considerazione che condivide?

Altri studiosi sostengono invece che Israele è uno Stato mediorientale con assai poco di europeo.  Le tesi di Pappé non mi hanno mai convinto molto.

A fronte di quanto sta avvenendo a Gaza, in Cisgiordania e in Libano, ha ancora senso parlare di Israele come dell’unica democrazia del Medio Oriente? Senza dimenticare che anche in Giordania i partiti politici hanno cittadinanza, sia pure all’interno di un quadro istituzionale più autoritario.

Non credo che si possa sostenere. Una democrazia è tale per tutti i suoi cittadini. E una democrazia non si basa solo sul voto.

Negli ultimi decenni la formula “due popoli due Stati” è stata completamente dimenticata, per poi essere riesumata solo in occasione della ripresa di un conflitto senza fare nulla per darle sostanza. Parliamo soprattutto degli Usa e dell’Unione europea, ma anche dei Paesi arabi, alcuni dei quali hanno firmato gli “accordi di Abramo” senza preoccuparsi dei palestinesi. Ora, per poter riavviare un processo di pace, sarebbe necessaria una classe politica assente in Israele, oltre che tra i palestinesi. Anche il grande movimento di massa che, prima del 7 ottobre, aveva riempito le piazze del Paese contro Netanyahu e la sua riforma della giustizia era abbastanza indifferente al destino dei palestinesi. Come se ne può uscire?

Credo che la mattanza del 7 ottobre (su cui non vedo qui domande, ma che non credo possa avere in nessun modo le caratteristiche di un gesto di liberazione dei palestinesi) abbia affossato radicalmente (almeno, speriamo, non definitivamente) ogni possibilità della creazione di due Stati. Sia Hamas sia Netanyahu vogliono la stessa cosa, sia pure rovesciata: un grande Stato islamico privo di Israele, o un grande Stato ebraico privo dei palestinesi. Certo, non c’è solo il 7 ottobre, ma Netanyahu ha subito usato quanto successo a questo scopo, mentre il permanere della guerra salvava il suo governo e indeboliva fortemente ogni resistenza fra gli israeliani. E intanto cresceva, di fronte alla terribile guerra contro Gaza, l’adesione palestinese a Hamas. Personalmente, immagino utopisticamente un solo Stato in cui ebrei e palestinesi vivano in pace. Ma data la situazione, è un sogno.

Recentemente la trasmissione televisiva “Report” ha messo in luce gli inquietanti legami tra il governo israeliano di estrema destra con i suoi omologhi in Europa, le cui radici spesso affondano nell’antisemitismo. Tutto questo con il silenzio assenso sia della popolazione israeliana sia delle stesse comunità ebraiche. Perché si è arrivati a questo punto?

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Non riesco a stupirmi che un governo razzista e fascista come quello israeliano abbia legami con l’estrema destra europea. Non tutta la popolazione israeliana la pensa così, e, prima del 7 ottobre, la situazione era molto diversa e l’opposizione molto forte. È assai probabile che, senza il 7 ottobre, il governo di Netanyahu sarebbe caduto. Ora è molto rafforzato dalla guerra e dal timore di altri attacchi. Le comunità ebraiche (ma non tutte, e non senza opposizioni) si schierano come hanno sempre fatto con Israele “senza se e senza ma”.

A proposito di antisemitismo, ormai da molti anni questo sostantivo ha cambiato significato. Basta pochissimo per essere definiti antisemiti. A riguardo nessuno, nella cosiddetta nostra prima Repubblica, si sarebbe azzardato a definire antisemiti Andreotti, Craxi o Berlinguer per i rapporti che avevano con l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) di Yasser Arafat. Tutto è cominciato con l’arrivo della destra al potere nel 1994. Anche in questo caso, perché?

Agitare l’antisemitismo per bloccare ogni opposizione, dato il peso che l’antisemitismo ha nella nostra storia europea e in quella di Israele, è molto conveniente per chi lo fa. Se poi chi è attaccato è ebreo, diventa “un ebreo che odia se stesso”. Ma, così facendo, si finisce per far crescere l’antisemitismo reale. Se tutto è antisemitismo, nulla lo è più. Tutto è permesso.

Che cosa intende per “suicidio”? Forse la perdita di un’autorità morale? Insomma, se fai un genocidio, dopo avere subito un genocidio, entri in un circolo che ti cancella appunto come possibile “autorità morale”. È questo il punto?

No, non è questo il punto. Se fai quello che sta facendo Israele, non hai autorità morale, sia che tu abbia o meno subito un genocidio. La violenza della distruzione di Gaza, come quella prima del 7 ottobre, ha contaminato gli israeliani, ha reso loro impossibile vedere la sofferenza dei palestinesi, ha fatto prevalere paura e odio. Non dappertutto, però, non fra tutti gli ebrei di Israele. Ma in generale, l’etica ebraica non esiste più. Nel 1967, un rabbino ortodosso di grande valore e prestigio parlò di “giudeonazisti”. Oggi è un termine antisemita, ma credo che debba farci riflettere.



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