“The Brutalist” batte “Vermiglio”, il cinema di città batte quello di campagna

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Il genere “rural” ra di gran moda fino a qualche tempo fa, e pareva l’unico in cui l’Italia riuscisse ad esprimersi e l’unico tipo di rappresentazione richiesta agli italiani. Invece a Los Angeles hanno premiato la costruzione e addirittura il cemento


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Alla fine ha vinto “The Brutalist” e il grande sconfitto a questi Golden Globes è invece l’italiano “Vermiglio”, e ci dispiace da patrioti però è forse segno che il genere “rural” conosce un po’ di stanca. Il genere “rural” consiste in esistenze un po’ “du pinze e ‘na tenaglia”, decrescita felice in contesti magico-agresti, lontano dalla città tentacolare, genere insomma “La chimera”. Era di gran moda fino a qualche tempo fa, e pareva l’unico in cui l’Italia riuscisse ad esprimersi e l’unico tipo di rappresentazione richiesta agli italiani, nelle varianti di mare o di montagna appunto tipo “Vermiglio” (alla Triennale di Milano domani  ci sarà una serata proprio sul cinema “Rural”, “esplorando il terreno della ruralità contemporanea tra riti ancestrali e paura di un futuro incerto”). Invece a Los Angeles hanno premiato  la città e la costruzione e addirittura il cemento (a vista). Miglior film drammatico, ai Golden Globes, miglior regia per Brady Corbet, miglior attore per Adrien Brody ormai specializzato nell’europeo errante, che qui fa Lazlo Toth, un architetto-designer ungherese in fuga dall’Europa e dal Bauhaus, approdato nell’America “booming” del Dopoguerra,  povero e solo e costretto a ricominciare da capo, da operaio. Un mistone tra vari architetti della grande fuga in America – se esiste l’architettura americana e l’international style del resto è  una conseguenza inintenzionale del Nazismo; dunque uno dei primi lavori che il nostro immaginario architetto fa è una poltrona tubolare che piace pochissimo al committente, il ricco wasp a forma di ricco wasp dal nome di Van Buren, che prima lo insolentisce (“ma che è, un triciclo?”) ma  poi capisce che il nostro è qualcuno  e che il nuovo stile in arrivo dall’Europa è un’occasione anche di marketing.  

Dunque “From Bauhaus to our House”, letteralmente, come da titolo originale di “Maledetti architetti” di Tom Wolfe. Van Buren si esalta e vuol far costruire a Toth un gigantesco mammozzone su un monte che causerà un sacco di guai, nel frattempo succedono cose, la moglie di Toth anche lei emigra in America ma a sorpresa arriva in  sedia a rotelle, l’America è un po’ meno America di quello che sembra, il capitalismo è cattivo e i neri sono segregati. Il filmone avrebbe dovuto avere come sottotitolo, per rimanere tra Budapest e Praga, “L’insostenibile pesantezza dell’essere” perché è un bellissimo inno appunto alla pesantezza: dei materiali, col  tondino di ferro, anima del cemento armato, sempre in primo piano, che farebbe la gioia di un acciaiere bresciano; alla durata stessa del film, oltre tre ore e mezzo (con intervallo), al peso specifico di tragedia e di Storia maiuscola che si porta dietro compresa la nascita di Israele. Alla scelta della pellicola, una lenzuolata girata col sistema Vistavision,  e poi “tirata” a 70 mm, insomma il doppio del formato abituale,  che sembra allargare la visuale fino a tener  dentro uomini e soprattutto palazzi. E’  un gran film infatti di edifici e di persone dentro edifici e dona quel sapore anticato alla storia, come se si fosse sempre in un quadro di Hopper o in una versione architettonica di Hitchcock (altro utilizzatore del Vistavision come in “Vertigo”; non a caso ricognizione architettonica sulla vecchia e nuova San Francisco). 

Forse “The Brutalist”  è il “C’era una volta in America” per chi ha fatto il Politecnico. Filone di pura nicchia, però, quello dei film architettonici. Ci sono i film sulle architetture (Antonioni nel genere drammatico e Jacques Tati in quello comico) e film sugli architetti, come “La fonte meravigliosa”, di King Vidor, ispirato alla vita di Frank Lloyd Wright  romanzata dalla russa americanizzata Ayn Rand che piace tanto ai magnati siliconvallici. E poi il pretenzioso “Ventre dell’architetto”, di Greenaway, storia di un progettista alle prese con degli americani costruttori di mall (come in “The Brutalist”), ma a Roma, dove soffre di un mal di pancia furibondo. Pare che Corbet si sia ispirato invece per la sua storia a  una serie di veri architetti, tra cui il  Louis Kahn autore delle sublimi quinte teatrali cementizie a La Jolla, California; e naturalmente all’ungherese Marcel Breuer, fuggiasco dal Bauhaus e inventore appunto delle sedie tubolari come la sedia Cesca che tutti abbiamo a casa. Un altro non nominato ma che sicuramente c’entra qualcosa è László Moholy-Nagy, che forse a causa della difficile pronuncia è stato un po’ dimenticato, ungherese anche lui del Bauhaus, però più pittore e fotografo e grafico. Il film, premiato l’estate scorsa al festival di Venezia con il Leone d’Argento, si conclude proprio in laguna con l’arrivo di Toth alla prima Biennale d’Architettura del 1980, quella diretta da Portoghesi, uno che era andato a vivere in campagna. 





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