Il 20 gennaio 1981 Ronald Reagan si insediava come Presidente degli Stati Uniti, aprendo dodici anni di predominio repubblicano ininterrotto alla Casa Bianca. Dieci anni più tardi si dissolveva la Repubblica Democratica Tedesca, e due anni dopo si scioglievano il patto di Varsavia e l’Unione Sovietica. Nel 1993 il democratico Bill Clinton inaugurava un nuovo corso politico, che corrispondeva maggiormente alla spinta espansiva del capitale nordamericano nel nuovo, più favorevole, scenario internazionale. Si apriva così l’epoca della globalizzazione neoliberista a guida occidentale, sviluppatasi lungo un lasso di tempo di trent’anni durante i quali il partito democratico ha predominato sul partito repubblicano (20 anni di presidenza contro 12).
Dopo la seconda elezione di Donald Trump, possiamo dichiarare definitivamente conclusa quest’epoca. La traiettoria della debacle democratica nelle ultime elezioni presidenziali presenta poche novità rispetto ai precedenti storici della sinistra occidentale. Possiamo riassumerla nel tentativo, contraddittorio e infruttuoso, di prevalere sulla propria controparte politica rincorrendola sul suo terreno, quando non superandola in peggio.
Confrontando l’ascesa del fascismo negli anni Trenta con i giorni nostri, ritroviamo una parabola che si ripete, concludendosi invariabilmente con il trionfo della destra. In particolare, quattro anni di presidenza Biden, talmente guerrafondaia da accreditare Trump come candidato “pacifista”, sono costati ai democratici la perdita di oltre 12 milioni di voti rispetto al 2020, facendo prevalere il candidato repubblicano, che ha saputo contenere meglio le perdite (2 milioni di voti in meno).
Le motivazioni profonde del comportamento apparentemente autolesionista della sinistra occidentale risiedono nella perversa solidarietà che lega le classi della nostra società. La sinistra accetterà di buon grado il proprio ruolo di azionista politico di minoranza nel sistema occidentale fintantoché la maggioranza dei salariati accetterà di cooperare con i propri sfruttatori, per trarre benefici a spese degli sfruttati di altri Paesi. Il principio secondo cui “cane non mangia cane” rappresenta il perimetro invalicabile della competizione politica interna all’Occidente, che la svuota di ogni contenuto in termini di alternative reali.
Se possiamo dire che la presidenza Biden si è sviluppata in piena continuità con la prima presidenza Trump, quali novità potrà portarci il Trump due? Sulla base dei segnali accumulati in questi mesi di transizione, ci possono essere pochi dubbi sulla volontà di rilanciare a tutto campo il predominio statunitense nella sfera economica, diplomatica e militare.
Nell’ingente investimento politico del capitalismo nordamericano su Trump si legge con chiarezza l’urgenza di ricreare un “Reagan moment” che, nell’arco temporale dei prossimi quattro anni, possa produrre una trasformazione decisiva degli assetti internazionali a favore degli Stati Uniti. In questo quadro, la più significativa novità rispetto al Trump primo è l’emergere di una nuova fazione di tecno-baroni, capitanata da Elon Musk, che si candida a guidare la ristrutturazione del complesso militare-industriale statunitense sulla base del paradigma dell’intelligenza artificiale.
Il settore digitale sceglie così di rinnegare completamente il proprio storico ruolo ideologico di campione della globalizzazione “progressiva” e “inclusiva” per arruolarsi, come ai tempi della guerra fredda, nella battaglia per rilanciare la supremazia statunitense sul resto del mondo. Si tratta di un tentativo carico di incognite, se si considera che questo settore è tra i più globalizzati e che gli sforzi per demarcare il perimetro degli amici affidabili nei quattro anni di amministrazione Biden sono stati molto costosi in termini diplomatici ed economici e poco efficaci in termini di risultati concreti.
Il poker è un gioco a somma zero, dove è escluso per principio che tutti possano vincere. Questo gioco rappresenta la quintessenza della logica politica occidentale, che il trumpismo promette di spingere al massimo. Poiché la strategia di Trump ricorda quella di un giocatore pronto ad andare all-in sulla propria mano, proviamo a capire quali siano le sue carte.
Senza dubbio veniamo da 15 anni di rafforzamento relativo dell’economia statunitense rispetto al resto del mondo (con l’eccezione della Cina), che fa parlare la stampa finanziaria internazionale di un ritorno dell’ “eccezionalismo americano” nella sfera economica. Questa tesi si basa su tre elementi fondamentali. In primo luogo, la crescita della produttività negli ultimi 15 anni è stata, in un contesto globale in rallentamento, maggiore di quella dei propri alleati (UE, Giappone, Canada) ma anche di molte economie emergenti e BRICS (come Brasile, Russia, Sudafrica).
In secondo luogo, gli USA hanno saputo rafforzare ulteriormente la propria leadership tecnologica guidando la nuova rivoluzione dell’intelligenza artificiale, attraverso la quale, come abbiamo visto, si apprestano a rilanciare la propria supremazia militare. In terzo luogo, gli USA sono al momento indipendenti sul piano energetico grazie al fracking. Secondo questa prospettiva, la forza economica sarebbe sufficiente a mettere gli Stati Uniti al riparo dalle ambizioni delle economie emergenti che hanno individuato nella piattaforma dei BRICS, al momento, un punto di resistenza più che il volano per una ridefinizione degli equilibri a proprio favore.
La chiave del successo statunitense può essere individuata nel persistente predominio della sfera monetaria e finanziaria. Il continuo afflusso di capitali verso l’area del dollaro va a finanziare sia lo sviluppo delle nuove tecnologie, con le ricadute di cui abbiamo detto, sia la straripante spesa pubblica che è stata fondamentale per rilanciare la crescita economica post-pandemica. Le sorgenti che alimentano la macchina economica statunitense non sembrano prosciugarsi neppure di fronte ad una situazione debitoria sempre più pesante. Ma non è garantito che i flussi restino abbondanti per sempre, e i timori al riguardo da parte degli osservatori occidentali crescono, specialmente alla luce dei piani fiscali del futuro presidente, che prevedono un nuovo consistente taglio alle tasse per i più ricchi.
La mano di Trump è ad alto rischio e, rimanendo all’interno della metafora pokeristica, la sua politica economica è un bluff. Infatti è impossibile chiudere il disavanzo commerciale statunitense con i dazi e mantenere lo status del dollaro allo stesso tempo, dato che sono i flussi di capitale dall’estero, che alimentano la forza della valuta USA, a causare tale disavanzo. Per rendere più competitiva la produzione interna rispetto a quella estera occorrerebbe rinunciare alla sopravvalutazione del dollaro causata dal monopolio finanziario statunitense.
Ci sono buoni motivi per dubitare che questa possa essere una buona scelta, visto che costerebbe una drastica riduzione della domanda interna e soprattutto renderebbe molto più stringenti i vincoli di bilancio del settore pubblico e privato mentre, come abbiamo visto, l’afflusso di capitali dall’estero è fondamentale per alimentare il dinamismo dell’economia USA.
Trump può contare sul servilismo dei propri alleati europei e giapponesi, privi in passato della dignità per reagire alle innumerevoli prepotenze subite e pronti oggi ad ingoiare quelle che si stanno già materializzando, a partire dalle sempre più pesanti interferenze sulla propria politica interna. Ma è verosimile che il resto del mondo scelga di andare a vedere le sue carte, ben comprendendo che gli Stati Uniti dipendono dall’estero molto più di quanto siano disposti ad ammettere.
L’approccio muscolare prospettato da Trump imporrebbe con certezza costi significativi sul piano interno, che potrebbero essere mal sopportati. In particolare, se Trump giocherà davvero la carta dei dazi e delle restrizioni all’immigrazione nei termini prefigurati, esporrà l’economia ad un forte rischio inflazionistico. Non a caso, l’atteggiamento della Federal Reserve sui tassi è diventato molto guardingo negli ultimi mesi.
Se l’inflazione riprendesse vigore, si potrebbe aprire un conflitto tra la Presidenza e la Banca Centrale, con conseguenze che potrebbero essere di vasta portata. Per evitare il rischio dell’inflazione, Trump punta a stimolare l’offerta attraverso una nuova ondata di radicale deregolamentazione economica. In pratica, la deregulation dovrebbe fornire lo shock positivo in grado di compensare gli shock negativi determinati dai dazi e dalla repressione dell’immigrazione. Anche in questo caso la scommessa è ad alto rischio, perché la deregolamentazione prospettata nella sfera finanziaria potrebbe avere effetti destabilizzanti in un momento in cui alcuni osservatori cominciano ad individuare nel mercato borsistico USA “la madre di tutte le bolle”.
La valutazione attuale della borsa USA, che rappresenta in termini di valore il 70% delle borse globali, è parte integrante della narrativa sull’ “eccezionalismo americano”, di cui si diceva sopra, perché si basa sulla forza economica delle magnifiche sette multinazionali a stelle strisce che dominano i mercati mondiali della tecnologia (con l’unica, significativa, insidia proveniente dalla competizione cinese). D’altra parte, quando i monopolisti privati assumono direttamente il comando politico, com’è avvenuto con il duo Trump-Musk, c’è senz’altro da dubitare della loro capacità di anteporre l’interesse generale al proprio.
Per questo la deregolamentazione, spinta da un’amministrazione stracarica di conflitti di interesse, rischia di avere implicazioni anticompetitive e distorsive, rafforzando ulteriormente lo strapotere dei monopoli privati che, a sua volta, potrebbe, a lungo andare, creare forti conflitti interni e indebolire quel potenziale innovativo che è il vanto degli Stati Uniti.
L’esito della mano non dipende solo dalle carte di Trump, ma anche da quelle degli altri giocatori al tavolo. Tra le economie emergenti, la Cina resta quella con le migliori potenzialità. In questi mesi il governo cinese ha preparato il terreno per una forte espansione della domanda interna che compensi il probabile aggravamento delle tensioni commerciali con gli Stati Uniti, dimostrandosi così pronto a resistere all’offensiva trumpiana.
Si prospettano tempi non facili, ma il potenziale innovativo dell’economia cinese resta elevato, e presenta vantaggi cospicui in aree critiche come quella della produzione di energie rinnovabili e delle applicazioni tecnologiche integrate.
Le altre economie BRICS, così come la maggioranza delle economie emergenti, vivono fortune alterne e, in alcuni casi, sono sottoposte ad una pressione economica occidentale che continuerà a metterle a dura prova, esponendole al rischio di cedimenti improvvisi. Sicuramente la crescente tensione internazionale non aiuta lo sviluppo delle economie più deboli e ostacola gli sforzi di cooperazione necessari ad affrontare la crisi climatica globale. Per questo la strada che conduce verso un multipolarismo equo e solidale e verso la transizione climatica si presenterà nei prossimi anni piena di ostacoli.
Le carte peggiori sembrano essere quelle dei Paesi europei e del MENA, sempre più compromessi dal peso di guerre che si protraggono, aggravandosi, senza prospettive di soluzione. Ma sarebbero l’umanità tutta e il pianeta stesso a rischio di sopravvivenza se quelle guerre degenerassero in un conflitto nucleare. Per questo resta fondamentale imporre la Pace per permettere all’umanità di cogliere i frutti abbondanti di una cooperazione mutuamente vantaggiosa. Si tratta di un’opzione che purtroppo rimane lontana dalle prospettive delle classi dirigenti dell’Unione Europea, incapaci di immaginare qualcosa di diverso da una politica espansionistica aggressiva.
In conclusione, una cosa è certa: la battaglia per dare un esito progressivo alle molteplici crisi che stiamo vivendo diventerà molto più dura nei prossimi quattro anni. Oscilleremo tra il rischio di una vittoria definitiva delle forze reazionarie, il collasso climatico e l’olocausto nucleare. Occorre attrezzarsi per essere all’altezza della sfida.
*economista, università di Firenze
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