Il governo Meloni e l’immigrazione: bilancio di fine anno

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Le questioni legate all’immigrazione hanno indubbiamente rappresentato un argomento di punta nell’agenda politica del governo Meloni nell’anno appena terminato. Sommando anche il 2023, arrivano a una quarantina i decreti governativi sull’argomento. Inoltre non c’è stato vertice europeo in cui Meloni non abbia annunciato preventivamente di voler parlare di sbarchi e misure di deterrenza. D’altronde non solo in Italia e non da oggi immigrazione e asilo sono diventati temi politici salienti, al di là della consistenza effettiva dei fenomeni. E soprattutto, nella versione della difesa dichiarata dei confini e dell’ostilità verso chi arriva dal Sud del mondo, i temi dell’immigrazione sono inalberati come vessillo identitario da forze politiche e governi sovranisti. Basti pensare alla campagna elettorale di Donald Trump e alla sua promessa di attuare la più grande deportazione della storia, alle spese degli 11 milioni d’immigrati irregolari che vivono negli Stati Uniti, spesso da molti anni.

La campagna contro gli sbarchi

Gli ingressi spontanei per chiedere asilo hanno catalizzato l’attenzione e l’enfasi della comunicazione governativa. È sfuggito tuttavia ai più un cambiamento di priorità nelle trattative europee. Il governo Meloni ha smesso di battersi per la redistribuzione dei richiedenti asilo dall’Italia (più volte definita dalla premier “campo profughi d’Europa”) verso altri paesi, superando la convenzione di Dublino. Ha inciso probabilmente la reticenza a entrare in collisione con gli alleati sovranisti dell’Est, risolutamente contrari. Ma il dato sostanziale e inaggirabile è che i numeri in realtà danno torto alle annose lamentele italiane: nel 2023 su 1.130.000 domande di asilo nell’UE l’Italia ne ha ricevute 136.000, poco più del 10%, la Germania 351.000, e anche Francia e Spagna ne hanno registrate più di noi (rispettivamente 167.000 e 162.000).

La questione su cui il governo ha concentrato gli sforzi è quella più impressionante agli occhi dei media e all’opinione pubblica: gli sbarchi dal mare di persone provenienti dalle coste africane e turche. Con il primo decreto sulla materia, il governo da poco insediato aveva reso più complicate e costose le attività di soccorso in mare da parte delle ONG: ricordiamo l’obbligo di effettuare un solo salvataggio per ogni viaggio, lasciando eventuali altri naufraghi in balia delle onde, e l’assegnazione di porti lontani dalle zone operative, allungando i viaggi e aumentando i costi per le navi umanitarie. Vari sequestri e fermi amministrativi negli anni successivi (13 nel 2024) hanno frenato le attività di salvataggio. Ricordiamo far l’altro le azioni intraprese contro le ONG che si sono rifiutate di consegnare i naufraghi alla cosiddetta Guardia Costiera libica, nonostante una sentenza abbia affermato che è da sanzionare semmai la collaborazione con essa. La diminuzione del pattugliamento delle acque del Mediterraneo da parte delle ONG ha probabilmente avuto un peso nel tragico bilancio delle vite perdute nel Mediterraneo centrale: 1.600 è la stima da parte dell’ONG SOS Humanity, ad anno non ancora concluso.

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Dietro la riduzione degli sbarchi

Per ridurre gli sbarchi, seguendo uno schema già collaudato, il governo ha intensificato gli sforzi di esternalizzazione delle frontiere. I ripetuti viaggi in Tunisia, con la legittimazione dell’autocrate Kaïs Saïed, insieme al rifinanziamento dei patti con i libici, sembrano aver prodotto dei risultati nel senso desiderato dal governo: al 30 dicembre, si contano nel 2024 65.696 persone arrivate via mare, contro 156.844 del 2023. Quasi 21.000 persone sono state intercettate dalla cosiddetta Guardia Costiera libica e riportate nel girone infernale dei centri di detenzione di quel paese, i cui abusi e maltrattamenti sono stati più volte denunciati dalle organizzazioni internazionali, mentre per la Tunisia inchieste giornalistiche hanno documentato le pratiche di deportazione e abbandono nel deserto. Questo lato oscuro delle politiche anti-sbarchi lascia però sostanzialmente indifferenti il sistema dei media e l’opinione pubblica in Italia.

Due altri aspetti vanno considerati: la diminuzione degli sbarchi in Italia ha avuto come contrappeso un aumento dei tentativi di raggiungere le Isole Canarie, territorio spagnolo, attraverso la molto più pericolosa rotta atlantica: qui si sono contati 9.757 morti ad anno non ancora concluso, secondo i dati divulgati dall’ONG Caminando Fronteras. La pretesa di difendere le frontiere europee fermando gli sbarchi va confrontata con queste evidenze: la politica italiana ha probabilmente contribuito a spostare le rotte verso altre destinazioni, rendendo i viaggi più difficili e pericolosi. Lo conferma anche il fatto che nei primi sei mesi del 2024 sono state presentate nell’UE 449.000 domande d’asilo, con una diminuzione soltanto lieve rispetto alle 475.000 del 2023 nello stesso periodo.

Il secondo aspetto da ricordare è che gli sbarchi dal mare si verificano da oltre vent’anni, con alti e bassi. Nel luglio 2004 la municipalità di Lampedusa ricevette dal presidente Ciampi la medaglia d’oro al valor civile per il suo impegno nel salvataggio e nell’accoglienza dei migranti. Dunque anche dal punto di vista numerico, oltre che sul piano dei diritti umani, il precoce trionfalismo è fuori luogo: gli attraversamenti del mare verso l’Italia potrebbero tornare a crescere nei prossimi anni, in funzione di diversi fattori non facilmente controllabili, come l’aggravarsi dell’instabilità di diversi paesi africani.

L’accordo con l’Albania

Il controverso e finora fallito accordo per il trasferimento in Albania di un numero di richiedenti asilo è un altro capitolo della politica di esternalizzazione dei confini, puntando ad alzare il tiro della strategia della chiusura: non solo fermare i richiedenti asilo nei paesi di transito, ma trattare le stesse domande d’asilo in centri collocati al di fuori del territorio dell’UE, impedendo l’ingresso sul territorio. L’obiettivo della deterrenza nei confronti dei nuovi partenti è stato affermato esplicitamente da Meloni, come dimostra anche il fatto che dalla misura sono escluse donne, minori, persone fragili. Implicito, ma trasparente, l’intento propagandistico: dare ai sostenitori e all’opinione pubblica l’immagine di un governo risoluto a fare ogni sforzo per tenere lontani i potenziali richiedenti asilo, riducendo al minimo il rispetto del dettato costituzionale (art. 10).

La battaglia sulla lista dei paesi sicuri (19 nell’ultima versione del governo italiano, contro 22 della versione precedente e nove soltanto per la Germania) ha inoltre consentito al governo di battere la grancassa su due obiettivi ideologici: affermare il primato del potere politico su quello giudiziario, e delle politiche nazionali su quelle europee. Pur di raggiungere l’obiettivo, il governo non ha risparmiato neppure le forzature procedurali: appena quattro settimane per l’esame delle domande di asilo, di cui una soltanto per i ricorsi in appello, quando le stesse regole sui “paesi sicuri” introdotte dal nuovo patto UE ne prevedono come minimo dodici.

I (mancati) ingressi per lavoro

C’è però un altro capitolo della politica degli ingressi, di cui si parla molto meno, quello delle autorizzazioni per lavoro. Nel 2023 il governo aveva varato una programmazione triennale, con la cifra-record di 452.000 nuovi ingressi, senza però avere il coraggio di abolire la lotteria dei click-day: una peculiarità italiana senza paralleli nell’UE. Sotto la spinta delle organizzazioni imprenditoriali, ha introdotto qualche tentativo di alleggerimento delle procedure. Ma non ha resistito alla tentazione propagandistica, denunciando gli abusi consentiti da una legislazione farraginosa e di difficile applicazione, e finendo per ingolfare nuovamente il sistema, tra l’altro bloccando in ambasciata i visti da diversi paesi (tra cui Bangladesh e Pakistan), tanto da scoraggiare gli imprenditori. Il risultato è che i tempi si sono allungati, occorrono parecchi mesi per ottenere l’ingresso legale di lavoratori che servirebbero subito, e la pre-iscrizione di novembre alle liste per ottenere l’arrivo di manodopera non ha raggiunto la quota prevista. Il sistema così congegnato risale alla legge Bossi-Fini: è troppo sbilanciato sulle istanze securitarie per rispondere in modo efficace ai fabbisogni del mercato del lavoro.

Le misure contro l’integrazione degli immigrati

Un importante capitolo delle politiche migratorie dovrebbe riguardare infine le misure per l’integrazione nella società italiana degli immigrati regolarmente soggiornanti. Oltre alla reiterata chiusura nei confronti di una nuova legge sulla cittadinanza, e a dispetto della retorica talvolta adottata della contrapposizione tra immigrati illegali e regolari, il governo ha fatto passi indietro su tre dossier di rilievo.

Il primo è l’accoglienza dei minori non accompagnati (19.228 quelli registrati in Italia al 30 novembre, compresi i minori di cittadinanza ucraina). Per loro sono state disposte più strette e discutibili verifiche dell’età effettiva, minacciando sanzioni penali per chi dovesse risultare già diciottenne. È stata inoltre introdotta la possibilità di ospitarli per mesi insieme agli adulti sotto la retorica dell’emergenza, nonostante le norme a tutela dei minori lo vietino. Il secondo dossier riguarda i negoziati per il riconoscimento dei diritti religiosi delle comunità islamiche, lasciati languire in una condizione di stallo senza neppure una convocazione, tanto da aver provocato le dimissioni dell’apposita commissione costituita presso il Ministero dell’Interno. Il terzo dossier, dove affiora ancora più chiaramente l’impostazione governativa, ha visto un aggravamento delle norme per i ricongiungimenti familiari, con il raddoppio dei tempi (da uno a due anni di residenza per poterli richiedere, oltre ai tempi lunghi per il rilascio dei visti), insieme a controlli più rigidi sull’idoneità delle abitazioni affidati alle polizie locali. È una misura che contrasta con l’auspicata integrazione sociale degli immigrati. Vivere in famiglia rafforza la coesione sociale, favorendo una vita normale, ordinata e integrata. I comportamenti illegali o comunque riprovevoli, come risse, ubriachezza, schiamazzi, ricorso alla prostituzione, scendono nettamente quando le persone vivono con la propria famiglia. Senza contare il contribuito demografico delle famiglie immigrate all’esangue natalità italiana, ai consumi, al salvataggio di scuole e posti degli insegnanti.

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Oltre alle azioni, contano anche le dichiarazioni, specialmente in una materia infiammabile come l’immigrazione. Gli esponenti del governo, compresa la premier, si sono segnalati negli ultimi mesi per il rilancio della polemica sulla pericolosità degli immigrati, tra l’altro a margine del processo tutto italiano Turetta-Cecchettin. Sono discorsi che seminano paura e diffidenza, alzano barriere, dividono la società. Si può solo auspicare che il 2025 veda una riduzione della rendita propagandistica e una riscossa del pragmatismo.



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