«Ho capito cos’è la normalità lontano dalle bombe israeliane». Il viaggio dei ricercatori palestinesi in fuga

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Prestito condominio

per lavori di ristrutturazione

 


Manar e Walid sono due giovani professori accolti dalla rete Sar, che sostiene gli studiosi dei paesi in guerra. Le loro voci: «Insegnavo a Nablus, un mio studente ucciso a un checkpoint». «Devo dimostrare più degli altri»

È arrivata con un visto turistico, ma non è giunta in Italia per trascorrere le vacanze di Natale. Manar Abdalarazeq ha 31 anni ed è una ricercatrice in biotecnologie. Viene dalla Palestina e ora lavora all’Istituto di Scienze dell’Alimentazione del Centro nazionale ricerche (Cnr) di Avellino grazie ad un progetto che assegna borse di ricerca fino a tre mesi a ricercatori libanesi e palestinesi in situazioni a rischio.

Il visto turistico era la strada più veloce per consentire l’uscita in sicurezza degli studiosi dai loro territori e cogliere la tempistica dei fondi per la borsa. Ma scaduti i tre mesi Manar dovrà tornare in Palestina.

Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese

 

«È un tempo difficile per i palestinesi», racconta Manar. «Essere un ricercatore nel mio paese è rischioso: tante limitazioni, mancanza di fondi e una preoccupazione costante per quello che accade intorno a te».

Manar insegna biologia e biochimica all’università An-Najah di Nablus nel West Bank: «Dove vivo io non è Gaza, ma il senso di insicurezza è forte: i militari israeliani possono entrare quando vogliono in città. Per visitare i miei parenti devo passare dai checkpoint e se gli israeliani li chiudono, io non posso vedere la mia famiglia. Ad un checkpoint un mio studente è stato ucciso». Per lei e gli altri accademici ospitati in Italia fare ricerca in un contesto internazionale coincide con un’idea di mondo: un posto senza confini dove si è liberi e sicuri di vivere e lavorare creando connessioni e condivisione di saperi e conoscenza.

«Volevo darmi un’opportunità», spiega così Manar la sua decisione di partire. «La mia università a Nablus fa enormi sforzi per andare avanti e si prende cura anche della dimensione psicologica degli studiosi». Nell’ottobre del 2023 l’ateneo ha cercato di supportare la salute mentale degli studenti e dei professori, molti dei quali hanno visto uccidere i propri familiari. «Concentrarsi sulle ricerche universitarie è un modo di andare oltre la guerra, di pensare che la vita continua», spiega Abdalarazeq che prima di questa esperienza ha conseguito un dottorato in biotecnologie alla Federico II di Napoli e ha poi svolto una ricerca al Fraunhofer Institut in Germania dove le è stato assegnato il premio “Green Talent” per i suoi studi sulla bioplastica nel campo della sostenibilità e dell’impatto ambientale.

«La prima volta che sono uscita dalla Palestina ho capito cos’era per me la normalità», dice. Subito dopo spiega meglio cosa intenda per normalità: «La mia vita normale era un’infanzia durante la seconda intifada: a 9 anni ho visto un aereo bombardare le auto e carri armati compiere martirii su donne e bambini; a 13 anni sono stata costretta a lasciare la scuola.

La mia vita normale era andare al supermercato, all’improvviso sentire uno scontro a fuoco e realizzare: sono arrivati gli israeliani, devo correre a casa. La mia vita normale era andare a prendere un aereo a Gerico e metterci sei ore per fare 40 chilometri perché vieni fermata ai checkpoint. Ma la mia vita non era normale. L’ho capito venendo in Italia, camminando per strada, facendo la spesa, lavorando in un contesto accademico che ha più fondi e risorse».

La rete di solidarietà

«Il progetto Capacity Building – Action for Lebanese and Palestinian scientific community, indetto dal Cnr, partner della rete Sar (Scholars at risk), è nato da una semplice domanda», racconta Marilena Rossano, Unità Relazioni Internazionali del Cnr: «In un contesto geopolitico come quello attuale cosa possono fare i ricercatori per costruire ponti? Fare ricerca insieme».

L’iniziativa è poca cosa, ma è un segnale: venti ricercatori tra cui otto donne possono svolgere un periodo di ricerca presso un istituto del Cnr nei settori di agri-food, water management, neuroscienze, ingegneria, beni culturali: «In un contesto dove ciascuno ha bisogno dell’altro, le esperienze vanno condivise», conclude Rossano.

Le università palestinesi stanno affrontando situazioni drammatiche senza precedenti: tutte le università nella striscia di Gaza sono state distrutte o gravemente danneggiate; 85mila studenti sono esclusi dall’istruzione tradizionale. «La mia università a Nablus», prosegue nel suo racconto Manar, «supporta gli studenti che vivono a Gaza con lezioni online». E aggiunge: «Insegnare a questi ragazzi è stata la cosa più difficile che ho fatto nella mia vita perché, prima della didattica, viene il supporto psicologico. Durante una lezione ho sentito le bombe e uno studente mi ha chiesto di pregare per loro». Manar fa una pausa mentre parla dal suo laboratorio: «Mi sentivo in colpa perché io ero nella parte della Palestina che ha università, cibo, elettricità e non potevo aiutarli. L’unico modo che avevo era, attraverso lo studio, dar loro una speranza».

Dilazioni debiti fiscali

Assistenza fiscale

 

Walid Malaeb, 43 anni, professore di fisica all’Università Americana Libanese di Beirut, è tra i venti accolti dal progetto Cnr-Sar. «Quando vado all’estero, sento una responsabilità in quanto libanese: attraverso le mie ricerche porto una narrazione diversa dalla guerra. Spesso devo dimostrare, più di altri, quanto valgo nel lavoro».

Tramandare

Una condizione comune, questa, a tutti i ricercatori e ricercatrici che in Italia sentono addosso l’etichetta di straniero prima che di accademico. «Negli ultimi tempi a Beirut», spiega Walid dall’Istituto Elettra di Trieste dove adesso lavora, «ho avuto difficoltà a concentrarmi su una ricerca che facevo con Tokyo. Ho avvisato i colleghi giapponesi: gli eventi che interessavano il mio paese non mi rendevano lucido nel lavoro. Dopo averlo comunicato, sono riuscito a mettermi con la testa sulla ricerca. Perché fare ricerca è un modo di restare connessi con il mondo».

Proprio il bisogno di sentirsi agganciata ad una rete internazionale di conoscenza ha spinto Manar Abdalrazeq a partire affidando il figlio di due anni a suo marito: «Non ho voluto ascoltare il senso di colpa di lasciare non solo il bambino ma anche il mio Paese che è in pericolo. Io devo continuare il mio viaggio: voglio concentrare i miei sforzi sulla sostenibilità ambientale. Il mio progetto è tornare a lavorare in Palestina». Manar ha una missione: «Insegnare alle nuove generazioni innanzitutto a non mollare con la propria vita».

© Riproduzione riservata



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Source link