La Biennale dell’Avana, attualmente in corso e aperta dal 15 novembre 2024, è un esempio piuttosto singolare e vibrante di resistenza e resilienza. Inaugurata dopo il catastrofico passaggio dell’uragano Raphael di inizio novembre e dopo la conseguente perdita di corrente elettrica per vari giorni, che hanno ridotto l’isola in una condizione di prostrazione, la Biennale parla faticosamente di volontà di riscatto.
La comunità internazionale guarda con sospetto una Biennale che continua ad esistere nonostante il movimento di boicottaggio portato avanti nelle ultime due Biennali, soprattutto dalle ultrapotenti Tania Bruguera e Coco Fusco, e quindi dall’establishment internazionale dell’arte contemporanea (l’ultimo “boicottaggio” è stato pubblicato da e-flux il 13 settembre 2024). D’altra parte, il governo cubano fa di tutto per affossare questa manifestazione, a cui dà briciole di fondi, data anche la scarsità generale delle risorse. La Biennale, tuttavia, rimane e in pericolosa contiguità con un governo oppressore, dato che dipende dai suoi fondi. Come risolvere questo nodo o come questo nodo è stato risolto, se lo è stato?
Chiariamo subito: lo è stato e, nonostante le difficoltà, in modo eccellente. L’eredità della Biennale del 1989, che ha fatto storia nel mondo delle Biennali (non stiamo a ripetere il perché, dato che ormai è entrata anche nelle antologie dell’arte contemporanea), è rispettata, da par suo, senza soldi, senza fondi, senza niente se non la buona volontà e un’organizzazione che, dopo i primi giorni un po’ naïf, ma forieri di fertili incontri internazionali, si è messa in riga, in un processo in fieri, che si sta ancora svolgendo. Il titolo stesso della Biennale, “Horizontes Compartidos”, è una chiamata alle armi della condivisione e contro l’isolamento cui le alte sfere del potere globale vogliono mantenerla. Ma questa Biennale, appunto, è tutto ciò che le teorie più aggiornate vorrebbero riconsiderare: il direttore artistico Nelson Ramírez de Arellano Conde, fotografo e curatore per decenni della Fototeca Nacional de La Habana, non è catapultato dall’alto in una geografia e una storia sconosciute (oggi è il direttore del Centro Wilfredo Lam, storicamente il cuore organizzativo della Biennale), ed è sostenuto da Jorge Fernández Torres, già direttore della Biennale e oggi direttore dei due musei più importanti di Cuba: il Museo Nacional de Bellas Artes e il Museo de Arte Cubano, che ha organizzato in concomitanza varie mostre nei suoi musei e un convegno interessantissimo di 7 giorni con ospiti da tutto il mondo, tra cui anche Massimiliano Gioni e Cecilia Alemani (giusto per citare i più noti). Entrambi i direttori, con le loro équipe, lavorano in maniera indefessa per degli stipendi da fame (e scusate la precisazione), portando avanti un programma che, altro punto a favore secondo i “sopracitati” teorici internazionali, è tutto bottom-up. Insomma, nessuna astronave di curatori à-la-page con altrettanti artisti — sempre à-la-page e sempre gli stessi — che planano più o meno disinteressati sul luogo dove si trovano ad operare. Tutti i possibili spazi culturali (e sono molti) dell’Avana sono attivati con mostre, performance, dialoghi aperti.
L’arte si mostra e si attiva in modo partecipativo in gallerie, biblioteche, teatri, mense sociali e in zone periferiche della città, coinvolgendo tutta la popolazione. Tutti sanno che si sta svolgendo la Biennale, non è un evento chiuso ed adibito agli amatori dell’arte contemporanea. Anche chi critica la Biennale partecipa comunque, e gli studi degli artisti e gli appartamenti privati sono aperti alla fruizione e allo scambio.
Ora conviene fare qualche esempio. Dal Centro Wilfredo Lam: l’artista, botanica, ricercatrice con PhD e docente alla Universidad Nacional de Colombia, Eulalia De Valdenebro (1978), porta avanti una ricerca dal punto di vista ecosofico sull’ecosistema del “páramo” delle zone alte andine, che per la sua particolare conformazione l’artista ha messo in rapporto al corpo umano, creando una relazione orizzontale, antigerarchica e interspecista tra donna e natura e nello stesso criticando la divisione soggetto e oggetto-natura e le collaudate conoscenze colonizzatrici del mondo che hanno portato l’uomo sull’orlo del disastro ambientale e climatico. L’artista, che ha portato un video e alcuni disegni che illustrano la metrica dei rapporti corpo-natura, è stata introdotta alla Biennale dalla curatrice e docente colombiana Ana María Lozano. Al Centro de Desarrollo de las Artes Visuales nella Plaza Vieja, la mostra Los otros caminos de la seda è centrata sul tessuto, e l’installazione Une traversée de l’existence (2024) dell’artista del Burkina Faso Hyacinthe Ouattara (1981) trasmette calore e allegria, fasciando con nastri, corde, tessuti e poesie ogni singolo centimetro di spazio. Coinvolgente e partecipativa la performance di danza della colombiana Natalia Espinel intitolata Errantes nella Plaza Vieja il giorno dell’inaugurazione. Splendide tutte le mostre dei musei di Fernández, da quella dedicata alle donne artiste dei Caraibi a quella delle pitture raffinate e provocatorie di Rocío García, ai video tutti sincronizzati sul respiro di Glenda León.
Per le collaterali, citerei la mostra Us-Nosotros dell’artista cubano Arles del Río alla galería-taller Gorría, che ha pazientemente costruito un anti-monumento con “lapidi” di sabbia con la testimonianza — data da un sito internet — di ogni nascita durante il Covid: il mondo cresceva nonostante la morte nei discorsi del momento. E poi i progetti di Wilfredo Prieto: il Fanguito, quartiere periferico dove l’artista ha voluto coinvolgere gli abitanti disponendo le sue opere nelle case e nei luoghi di incontro, facendo “uscire dal cubo bianco l’arte” (a Cuba c’è una grande tradizione di artisti che intervengono nei quartieri, ricordo almeno il progetto Romerillo di Kcho). Prieto ha anche aperto uno spazio nuovo in un’affascinante casa coloniale nel Vedado, chiamato Línea, che funzionerà da galleria, luogo per workshop, studio. Per ora c’è una mostra dell’artista israeliano Ariel Schlesinger, intitolata Mierda y Mariposas, proveniente direttamente dall’omonima mostra da Massimo Minini, uno dei galleristi di Prieto. Contraddittoria alla base, affascinante e coinvolgente durante il suo svolgimento, ispiratrice di incontri e riflessioni, la Biennale dell’Avana è ancora viva.
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