L’università partecipa al disegno della democrazia: è, come la scuola, “organo costituzionale” (Calamandrei). L’attacco all’università è, dunque, parte della neutralizzazione della democrazia. Aggredire l’università (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2024/12/16/difendiamo-luniversita-pubblica/) è coerente con la verticalizzazione del potere, la repressione del dissenso, la demolizione dei diritti sociali .
Attraverso l’università passa la promozione della cultura e della ricerca, garantita dalla Costituzione (articolo 9), come valore in sé e come elemento fondamentale nel percorso verso il “pieno sviluppo” e l’“effettiva partecipazione”, di ciascuno e di tutti (articolo 3, comma 2). L’università, cioè, è strumento di emancipazione, personale e sociale. L’università è luogo di costruzione del sapere critico e del pluralismo che assicurano vitalità alla democrazia; è “coscienza critica del potere” (Edward Said), in quanto esercita contro-potere e concorre alla limitazione del potere connaturata alla democrazia costituzionale. La libertà della ricerca e dell’insegnamento e l’autonomia delle università (articolo 33 Costituzione) presidiano lo spazio libero del pensiero e sono pre-condizione di esistenza del carattere conflittuale della democrazia.
Da anni è in corso un processo – mi limito a citare le “riforme” Ruberti (legge n. 341 del 1990) e Gelmini (n. 240 del 2010) – di aziendalizzazione, privatizzazione e burocratizzazione, che segna una metamorfosi nel segno dell’accademia neoliberale. L’aziendalizzazione e la privatizzazione conducono sia alla strutturazione dell’università come un’azienda, come emerge, per limitarsi a qualche aspetto, dal linguaggio (i crediti, gli studenti come clienti), dalla configurazione della ricerca come prodotto, dalla concorrenza fra gli atenei; sia all’assunzione come interlocutore privilegiato delle aziende, con ripercussioni sulla declinazione degli insegnamenti, dei corsi di studio e degli indirizzi di ricerca. La burocratizzazione e la valutazione mortificano, asfissiano e appiattiscono sull’esistente, favorendo approcci meramente descrittivi, la ricerca e il confronto. Lo studio è confinato da steccati disciplinari che chiudono l’orizzonte aperto del pensiero; è un “prodotto” da sfornare in quantità prestabilite e in tempi rapidi, in un contesto dove gerarchie baronali e rapporti vassallatici sono tutt’altro che scomparsi.
I provvedimenti del governo Meloni accelerano la sterilizzazione del pensiero divergente che deve caratterizzare, in tutti campi, l’università e affinano il suo asservimento al servizio del potere, economico e politico. Il pesante taglio dei finanziamenti (500 milioni) in una università già sotto finanziata (in rapporto al PIL l’Italia spende per studente lo 0,96% contro l’1,55% della media dei paesi OCSE), distrugge il futuro di lavoratori e lavoratrici precari (e dell’università, data l’insostituibilità della loro presenza per la ricerca come per la didattica), impedisce la ricerca di base e libera, induce aumenti delle tasse che violano il diritto allo studio di studentesse e studenti, svuota il senso dell’autonomia come indipendenza, priva tutti del ruolo che l’università esercita nella società.
Effetto collaterale, corroborato da misure in loro favore: la crescita delle università private telematiche; dopo la sanità, anche l’istruzione è terreno di conquista per il profitto privato.
La riforma Bernini in discussione (AS 1240) moltiplica e frammenta le forme di precariato (assistenza alla ricerca junior e senior, contratto post-doc, professore aggiunto), prevedendo per i pochi sopravvissuti ai tagli un lungo percorso senza le tutele che rendono il lavoro, e la vita, degna. L’università diviene sempre più elitaria (classista), nell’accesso allo studio come istruzione (per tutti, la mancanza di alloggi per studenti) e nella possibilità di lavorare in università. La guerra, quindi, come orizzonte politico ed economico, oltre all’appropriazione, in stile dual use (per scopi bellici), della ricerca, favorisce la stretta autoritaria e conservatrice; l’università che non si allinea, che diserta, finisce tra i nemici, da neutralizzare.
Alla neutralizzazione, oltre i profili citati (aziendalizazzione, burocratizzazione, precariato, definanziamento), concorrono espliciti interventi repressivi, come l’ingresso della polizia nelle università, la denigrazione degli studenti in mobilitazione (le acampade per la Palestina), l’attacco a specifici insegnamenti (come i corsi sulle teorie queer); per tacere di proposte che aleggiano nell’aria, come la nomina dei rettori da parte del governo. Ancora. Il disegno di legge prevede che i servizi segreti (DIS, AISE e AISI) potranno stipulare, in nome della sicurezza nazionale, convenzioni con le università, anche in deroga alle norme in materia di riservatezza. Cosa resta dell’università come spazio di libertà?
Le assemblee precarie nate in molte università e le mobilitazioni studentesche esprimono la consapevolezza del carattere collettivo e politico del taglio delle risorse e delle riforme in discussione e rappresentano con la loro esistenza un atto di insubordinazione rispetto all’individualismo dell’imprenditore di se stesso e alla competitività dell’accademia neoliberale. Agitiamoci tutti, a partire da chi, come chi scrive, ha una posizione garantita. La libertà dell’università è libertà di tutti e per tutti; è ancora una volta questione di democrazia e di possibilità di cambiare l’esistente.
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