La visita informale di Giorgia Meloni a Trump nella sua residenza privata è un’ulteriore prova del ruolo che la nostra premier occupa a livello internazionale. Le calorose parole dell’ormai prossimo presidente americano hanno voluto dare rilievo pubblico ad una visita che Meloni aveva voluto gestire senza fanfare, segno evidente che la nuova amministrazione USA la ritiene un elemento chiave nel rapporto con l’Europa, anche per la politica estera mediterranea e non solo. Lo fa perché in quadro UE molto mosso la ritiene un elemento di stabilità fondato nel contesto di un sistema democratico che non viene intaccato. E questo la legittima, come non avviene per un quasi autocrate come Orban.
Ora preservare questa stabilità di dialettica democratica diviene un punto di forza per promuovere il ruolo dell’Italia: un obiettivo che deve stare a cuore a tutte le forze politiche, al di là delle legittime visioni divergenti che sono presenti. Non dovrebbe però sfuggire che qualche passo per uscire da quella radicalizzazione partigiana di maniera che tanto piace a certa comunicazione lo si sta facendo.
Vogliamo attirare l’attenzione su due casi. Il primo è la scelta di Fabrizio Curcio come commissario governativo alla ricostruzione post alluvione succedendo al generale Figliuolo. Su questa vicenda sembrava si andasse ad uno scontro fra governo centrale e governo della regione Emilia Romagna, cioè fra due espressioni rispettivamente della maggioranza e dell’opposizione. Invece un’interlocuzione dialettica e serrata fra Giorgia Meloni e Michele De Pascale ha portato ad una soluzione soddisfacente per entrambe le parti: il governo ha mantenuto di conservare la direzione della ricostruzione alle sue dipendenze, ma scegliendo anziché un generale come si era dato per scontato, un professionista della protezione civile, già attivo a suo tempo in Emilia Romagna, sicché De Pascale (che sarà subcommissario a termini di legge) ha potuto non solo riconoscere la qualità della nomina, ma assicurare la forte volontà della Regione di collaborare lealmente e fattivamente (e lo ha fatto anche Bonaccini).
Il secondo segnale è come si sta sviluppando la complicata e dolorosa vicenda della giornalista Cecilia Sala presa in ostaggio dal regime di Teheran. L’opposizione si è messa a disposizione per una gestione unitaria e “nazionale” di questa emergenza e il governo ha accolto l’apertura (anche con questa credenziale è andata da Trump e presto vedrà Biden). Giustamente Meloni ha spostato il confronto dalle aule parlamentari al Copasir: la questione è troppo delicata per poter affrontare il rischio di sceneggiate d’Aula (tentazioni a cui qualcuno finisce per cedere innescando micce pericolose), trasferendo invece il dibattito nella più riservata sede del Comitato per la Sicurezza.
Sappiamo benissimo che si può sempre argomentare strumentalmente contro questa lettura con la solita storiella di una rondine che non fa primavera, ma se si vuole davvero normalizzare l’ennesima transizione politica italiana è su questi segnali che si deve costruire.
Li ha colti da par suo il presidente Mattarella, che nei suoi discorsi di fine anno ha dedicato molti passaggi a mettere in guardia contro le sirene della radicalizzazione che attraggono nel loro gorgo tanti che si illudono così di guadagnare ruoli più o meno “storici”. Con grande rispetto del suo ruolo istituzionale e della distribuzione (termine da preferirsi a quello di “divisione”) dei poteri l’inquilino del Colle non ha elencato esempi di terreni sui quali si potrebbero e si dovrebbero fare passi avanti nella costruzione di una dialettica politica equilibrata fra maggioranza e opposizione astenendosi egli dallo scendere nell’agone politico-parlamentare.
Non ci vuole particolare sforzo per coglierne alcuni. Il primo è la nomina dei quattro membri della Corte Costituzionale da sostituire per fine mandato di quelli in carica. Il parlamento a cui spetta la scelta sarà chiamato a decidere già in gennaio e anche qui si è raggiunto un accordo metodologico più che soddisfacente: due giudici designati dalla maggioranza (uno da FdI e uno da FI), uno dall’opposizione (in questo caso il PD) e uno infine da individuarsi in una personalità di non stretta estrazione partitica. Ora si tratta di trovare un accordo sui nomi, con uno sforzo comune, che superi anche lotte di corrente interne ai partiti. È importante che si giunga al risultato perché sarebbe un bel segnale non solo per l’opinione pubblica, ma soprattutto per il complesso delle classi dirigenti del nostro sistema istituzionale e pubblico.
L’altro ambito riguarda l’annosa questione delle riforme istituzionali. Per un complesso di ragioni, tutte sono in una fase di stallo. L’autonomia differenziata perché riportata dalla Consulta entro i corretti parametri istituzionali troppo disinvoltamente trattati nel testo Calderoli; il premierato perché finito nella palude di un disegno che per accontentare troppi pretendenti non riesce a districarsi né sulla questione del sistema elettorale, né su altre tecnicalità; la riforma del sistema giudiziario che deve affrontare l’opposizione pregiudiziale dell’ANM sulla separazione delle carriere (a nostro modesto avviso con motivazioni più che deboli).
Andrebbero assolutamente evitate le soluzioni che possono far perdere gli spiragli di normalizzazione del quadro politico, cioè sia i suggerimenti interessati a risolvere tutto a colpi di maggioranza (qualcosa dovrebbe avere insegnato la fine non gloriosa della riforma Calderoli), sia le pulsioni a lasciar dormire tutto in qualche capace cassetto in attesa di vedere se mutano le situazioni di contesto.
Il Paese è in una fase positiva e deve affrontare prove impegnative: non c’è ragione perché non si punti a rafforzarlo aprendo un confronto costruttivo, per quanto dialettico e senza cedimenti a mercati di comodo o peggio, ai populismi retorici.
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