Il divorzio tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia: un golpe bianco?

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È cosa nota che la Storia la scrivano i vincitori: da che mondo è mondo è sempre stato così. Tuttavia, oggi abbiamo la straordinaria opportunità di opporre alla narrazione dei vincitori quella dei vinti. Abbiamo imparato a diffidare dei media mainstream, della comunicazione politica, del finto dissenso che ci viene mostrato nei dibattiti. Possiamo – nonostante ogni tentativo di imbavagliarci (si pensi al Digital Services Act) – smascherare le imposture.

Conoscere la verità – almeno nel preciso caso che mi accingo a raccontare – non ci renderà liberi: “Il mondo rimane sempre preda delle miserabili nullità che lo sanno ingannare” (Giuseppe Garibaldi).

Ma la nuova consapevolezza ci sarà utile per comprendere che i fatti storici (eventi naturali esclusi, ovviamente) non sono ineluttabili: al contrario, sono la conseguenza di decisioni umane.

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Quando le decisioni sono tragicamente sbagliate e – ciò nonostante – creano i presupposti per la formazione di un apparato di potere che diffonde una propaganda mistificatoria autocelebrandosi, non è mai troppo tardi per smascherare le imposture.

In questa storia, gli impostori hanno nomi e cognomi, alcuni sono ancora in vita e non è per denigrare loro che mi ergo a storico, ma per ricordare gli sconfitti. E, tra gli sconfitti, c’è un uomo – oggi novantasettenne – che con una chiara visione del futuro e grande coraggio si oppose a Beniamino Andreatta in quella che venne definita la “Lite delle Comari”, bruciando la propria carriera politica e con ogni probabilità scatenando contro il proprio partito – il PSI di Bettino Craxi – la reazione dei poteri forti che poi portò all’inchiesta di Mani Pulite. Perché Mani Pulite fu – è il caso di sottolinearlo – null’altro che un’inchiesta nata dalla consegna, da parte dei servizi segreti, di documenti selettivamente predisposti per eliminare alcuni partiti politici rei di tutelare i nostri interessi nazionali (si pensi all’episodio di Sigonella o, appunto, alla “Lite delle Comari”).

Rino Formica viene ricordato per alcune battute formidabili (riferendosi al PSI: “il convento è povero, ma i monaci sono ricchi”, o ancora, dopo l’ultima Assemblea Nazionale del 1991: “è una corte di nani e ballerine”; ma la mia preferita è quella su Ciriaco De Mita: “un uomo dal quale non comprerei neppure un’auto nuova”). Ma i suoi meriti sono legati alla ferma opposizione a Beniamino Andreatta.

La vittoria di Beniamino Andreatta portò al potere un gruppo di cattolici confluiti nell’Ulivo. Mi limito a citarne cinque, ma la lista è molto più lunga: Romano Prodi, Giovanni Bazoli, Enrico Letta, Sergio Mattarella, Paolo Gentiloni. Superfluo evidenziare che ciascuno di loro ha esercitato (o esercita tuttora, ciascuno nel proprio ambito) un potere tale da influenzare la politica e l’economia italiane.

Sono un giurista, non un economista. Per ricostruire nei propri aspetti tecnici lo scontro tra Beniamino Andreatta e Rino Formica, riporto ampi stralci dell’eccellente articolo dell’economista Emmanuele Fiorella pubblicato su Appello al popolo il 7 gennaio 2019 https://appelloalpopolo.it/?p=47498 (scusandomi con Fiorella per le correzioni e aggiunte apportate):

 

Il 12 febbraio 1981, il Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta comunicò al Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, la sua volontà di cambiare profondamente la politica monetaria della Banca d’Italia e del Governo italiano. Lo scambio di opinioni che ne seguì fu esclusivamente epistolare e il Parlamento non fu mai incluso nella discussione che portò al cosiddetto divorzio fra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro (oggi Ministero dell’Economia e delle Finanze, all’epoca suddiviso in due distinti ministeri; Tesoro e Finanze).

I legali del Ministero, a cose fatte, giustificarono l’operato di Andreatta e Ciampi: “la revisione delle disposizioni date alla Banca d’Italia rientrava nella competenza esclusiva del Ministro”.

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Fu un tipico esempio in cui agendo nella legalità si produsse illegalità, anche se “le menti semplici non afferreranno mai questa contraddizione” (Ernst Jünger, Trattato del ribelle).

Infatti, è evidente che una decisione destinata a cambiare (col senno di poi in maniera tragica) il destino del nostro Paese non dovesse essere assunta da due soli uomini, ma dal Parlamento.

In un articolo pubblicato il 26 luglio 1991 su Il sole 24 Ore l’ex Ministro Andreatta si vantò del proprio operato, definendolo una “congiura”:

“Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, né lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come “congiura aperta” tra il Ministro e il Governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso – soprattutto sul mercato dei cambi – abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato”.

Una vera e propria confessione…

Il divorzio si concretizzò nel luglio 1981, quando la Banca d’Italia non fu più “obbligata” a coprire con l’emissione di moneta i titoli di stato non assorbiti dal mercato.

Nel 1982 il Governo Spadolini II cadde a causa dello scontro politico fra il ministro del tesoro Beniamino Andreatta e il ministro delle finanze Rino Formica, proprio su questo provvedimento. La crisi di governo che ne scaturì è ricordata con il nome “Lite delle Comari”.

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Come funzionava il meccanismo di emissione e collocamento dei titoli di stato italiani prima del luglio 1981?

I titoli di stato sono “obbligazioni emesse dal Ministero dell’Economia e delle Finanze attraverso il Dipartimento del Tesoro”. In parole povere, “debito a termine” usato dagli Stati per finanziare parte del bilancio. Quando lo Stato ha bisogno di liquidità, il Ministero del Tesoro emette cosiddetti titoli di stato.

Prima del luglio 1981, il Ministero del Tesoro emetteva titoli di stato e ne affidava il collocamento alla Banca d’Italia. Il rendimento era predeterminato. Se il collocamento fosse stato incompleto (ovvero se gli acquisti di titoli fossero stati inferiori al totale dei titoli emessi), la Banca d’Italia avrebbe fornito allo Stato la copertura finanziaria necessaria – equivalente al valore dei titoli non collocati – emettendo moneta.

Il punto cruciale è che il tasso di interesse veniva predeterminato dallo Stato.

Possiamo vedere gli effetti sul debito pubblico di tale procedura nella figura 1. Il debito pubblico italiano fino al 1981 non aveva mai superato il 65% del PIL, una percentuale quasi irrisoria rispetto al debito attuale (135,8% del PIL nel 2024) ma di gran lunga maggiore rispetto alle tendenze precedenti. Infatti, il valore medio del rapporto debito/PIL era del 30% nel periodo 1950-1969 e del 44% nel periodo 1970-1975. Valori assolutamente accettabili e prova del miglior stato di salute economico-finanziaria di cui godeva l’Italia in passato.

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Figura 1: Rapporto Debito Pubblico PIL dal 1976 al 2010.

Per completezza – perché ebbero importanti ripercussioni sul bilancio del nostro Paese -vanno ricordate le due crisi petrolifere del 1973 e del 1979 che videro il prezzo del petrolio crescere di circa 6 volte, a causa della “Guerra del Kippur” e della “Rivoluzione Iraniana”. Va anche menzionata la recessione del 1975 che vide il PIL italiano diminuire del -2.1%.

Cosa cambiò dopo il luglio 1981?

Dal luglio 1981 a – seguito del “divorzio” deciso da Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi – la Banca d’Italia cessò di compensare l’eventuale mancato collocamento dei titoli di stato emettendo moneta. La conseguenza è che da allora lo Stato è obbligato a collocare tutti i titoli di stato emessi per ottenere la liquidità necessaria a far fronte ai propri impegni di spesa.

In estrema sintesi, il Ministero del Tesoro si vede costretto, dal luglio 1981, a vendere i titoli di stato sui mercati finanziari, a tassi di interesse che vengono stabiliti non più dallo stato italiano ma dal mercato.

Secondo voi cosa conviene al mercato? Tassi di interesse più alti o più bassi? Guardiamo la figura 3.

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Figura 3: Il tasso di interesse reale medio sul debito pubblico italiano

È evidente ed incontrovertibile che il rendimento reale medio sul debito pubblico aumenti di 2 punti percentuali fra il 1981 ed il 1982 e raggiunga la quota record dell’8% nel 1992.

La figura 4 analizza il saldo pubblico (linea continua), la spesa per interessi (linea tratteggiata), e il saldo primario (linea a puntini) in Italia, dal 1960 al 2010. Il grafico è riferito al periodo dal 1981 a circa la metà degli anni ’90, ed è utile per avere una rappresentazione immediata dei meccanismi che hanno portato a raddoppiare il debito pubblico.

Va aggiunto un altro elemento di riflessione: a partire dal novembre 1992 la lira inizia un percorso di svalutazione che durerà alcuni anni.

La linea tratteggiata nella figura 4 rappresenta la spesa per gli interessi sui titoli di stato in rapporto al PIL, mostrando una crescita notevole dal 1981 fino alla fine del 1992. In altre parole, con una crescita dei tassi di interessi sui titoli di stato (fig. 3), la spesa per interessi (rispetto al PIL) è esplosa.

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Figura 4: Il saldo pubblico (totale), la spesa per interessi, e il saldo primario in Italia, dal 1960 al 2010 (in punti di PIL)

Il saldo primario italiano (linea a puntini) è negativo a partire dagli anni 90. In altre parole, le uscite sono state minori delle entrate. Come conseguenza dell’espansione della spesa per interessi, dopo circa 10 anni, nel 1994 il debito pubblico supera il 120% del PIL raddoppiando il suo rapporto dal 1981 come mostrato nella figura 1.

Il punto più alto di spesa rispetto al PIL si è avuto nel 1975, anno della recessione. Dopo il 1975, il saldo primario (fig. 4) esprime una tendenza negativa che equivale a una diminuzione costante della spesa pubblica (o aumento delle tasse in rapporto al PIL) rispetto a un costante aumento della spesa per interessi (in rapporto al PIL).

Osservando il grafico nel periodo 81-92 (dopo il divorzio), il saldo primario è crollato, mentre la spesa per interessi è esplosa. Quindi, si può dimostrare che il problema del debito pubblico non è connesso alla spesa pubblica, ma è piuttosto causato dalla maggiore spesa per interessi.

(Nota doverosa: i dati macroeconomici smentiscono una volta per tutte che l’Italia sia una Nazione di persone che vivono al di sopra delle proprie possibilità. L’Italia è invece una Nazione gravata di un indebitamento crescente causato da decisioni sbagliate e – su quel debito – paga un interesse passivo pari a quello dei bond tedeschi + uno spread “deciso” dalle agenzie di rating (o se vogliamo dal mercato): un handicap che in oltre 40 anni è risultato fatale e ha comportato una costante diminuzione della spesa pubblica (che ovviamente ha comportato enormi sacrifici sociali).

Speculando sui possibili scenari in cui il divorzio non fosse avvenuto, il debito pubblico sarebbe certamente minore di quello attuale. Probabilmente vi sarebbero stati anni di inflazione a due cifre e forse svalutazioni (che del resto si sono ugualmente succedute, fino all’ingresso nell’Euro in condizioni di palese inferiorità rispetto ad altre Nazioni).

Un altro punto fondamentale è la composizione del saldo pubblico.

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Come dimostrato nella figura 4, l’avanzo primario è passato dal 5% di PIL (destinato alla spesa pubblica) nel 1981, al circa -6% rispetto al PIL (tagliato dalla spesa pubblica) nel 1997. La tendenza è “linearmente” negativa, cioè, lo Stato ha deciso di diminuire progressivamente la spesa pubblica per accomodare la crescente spesa per interessi. Quindi, per mantenere l’andamento del saldo dal 1981 al 1993 (fig. 4) si è avuta la necessità di aumentare le tasse o di limitare la spesa pubblica e l’erogazione dei servizi.

Nel 1981 il saldo pubblico ammontava a circa l’11% del PIL, del quale 5% destinati al disavanzo primario (cioè servizi per i cittadini) e 6% destinati alla spesa per interessi (cioè risorse pubbliche destinate agli investitori: banche, istituti di investimento e individui). Invece, alla fine del periodo analizzato, nel 1993, il saldo fra le entrate e le uscite ammontava a circa l’8% del PIL, risultante dalla somma di 11% per spesa per interessi e -3% di avanzo primario. Quest’ultimo proviene dal taglio dei servizi per i cittadini e/o da mancati investimenti, invece, l’11% del PIL è destinato alla spesa per interessi (investitori).

“Il divorzio è l’espressione di un conflitto distributivo per la spartizione della spesa pubblica fra i poteri finanziari e i cittadini, che si è risolto con una evidente vittoria dei primi che hanno guadagnato lauti profitti, e un’altrettanto chiara sconfitta dei secondi che hanno sofferto l’aumento delle tasse e il taglio dei servizi.” (Emmanuele Fiorella)

Come ho già accennato, i fatti storici (eventi naturali esclusi, ovviamente) non sono ineluttabili: al contrario, sono la conseguenza di decisioni umane. Da oltre quarant’anni siamo vittime della peggiore mistificazione: l’apparato di potere dei cattolici di sinistra è talmente potente da stroncare ogni tentativo di obiettiva analisi storica. Per dare un’idea di come veniva (e viene) gestita la cosa pubblica, due aneddoti: Beniamino Andreatta indicò Giovanni Bazoli (suo coinquilino) come Presidente del Nuovo Banco Ambrosiano e Romano Prodi (suo assistente) come Presidente dell’IRI.

Carlo Azeglio Ciampi e Sergio Mattarella sono diventati Presidenti di questo nostro “povero paese” (utilizzo non a caso la celebre definizione data da Charles de Gaulle correggendo Indro Montanelli che aveva affermato che l’Italia era un paese povero). La frase del Generale (un convinto sostenitore dell’interesse nazionale del suo Paese contro il tentativo americano di assoggettamento) fotografa perfettamente la situazione di una Nazione che già all’epoca dell’intervista ospitava oltre cento basi militari americane, dimostrando quella “cupidigia di servilismo” stigmatizzata in un memorabile discorso alla Camera del 30 luglio 1947, dall’ottantasettenne Vittorio Emanuele Orlando (l’ex Presidente del Consiglio dei Ministri che aveva rappresentato l’Italia alla conferenza di Pace di Parigi nel 1919/1920). L’espressione “cupidigia di servilismo” venne poi ripresa in più occasioni, nei suoi scritti, dal Professor Federico Caffè.

 

E finalmente, torno a Rino Formica. Mentre i cattolici di sinistra conquistavano il potere politico ed economico (sarebbe interessante approfondire i legami di alcuni dei nomi citati con l’Opus Dei), Mani Pulite liquidava l’intero PSI. Tuttavia, la carriera politica di Rino Formica era già finita a causa della “Lite delle Comari”. Ma se abbiamo visto quale fosse la posizione del vincitore Beniamino Andreatta, quale era quella del perdente Rino Formica? Ma soprattutto, quali effetti avrebbe avuto il prevalere di Rino Formica?

Formica era per mantenere la subordinazione della Banca d’Italia al Ministero del Tesoro e propose la cancellazione di parte del debito pubblico detenuto dalla Banca. La sua proposta, fortemente innovativa, si scontrava con gli interessi della grande finanza (la Banca d’Italia, a dispetto del nome, non è pubblica: qui sarebbe necessario aprire una lunghissima parentesi sugli assetti partecipativi delle banche italiane) e creava un pericoloso precedente. Poteri forti facevano pressioni in due direzioni. Ma vediamole, in dettaglio: 1) da un lato, affidando i rendimenti dei titoli di stato di un’economia solida alla speculazione, intendevano garantirsi una rendita certa. Di questo scrissi anni fa e fui completamente ignorato: se fino al 1981, coi rendimenti fissati dallo Stato e il collocamento affidato alla Banca d’Italia i titoli venivano acquistati soprattutto da piccoli risparmiatori italiani, dopo il 1981 creditori diventano soprattutto speculatori internazionali. Un conto è garantire un basso ma certo rendimento al capitale di “orfani e vedove”, tutt’altro garantirlo a speculatori al tasso influenzato dalle “loro” agenzie di rating.

Il ragionamento – che a me sembra incontrovertibile – ha eccitato l’aggressività di alcuni economisti: “E’ il mercato, mi è stato obiettato. E il mercato chiede all’Italia un tasso di interesse maggiore di quello applicato ai bond tedeschi perché l’Italia è a rischio default”.

Da giurista, mi sento offeso dalla ottusità di un simile ragionamento: il rischio default non esiste, non è mai esistito e, semmai, è conseguenza della speculazione in nostro danno. La nostra posizione di partenza (nel luglio 1981) era addirittura migliore di quella della Repubblica Federale Tedesca i cui conti sono sempre stati viziati dalla mancata considerazione (nel totale del debito pubblico) del debito dei singoli Länder (sì, avete letto bene: vi invito a leggere questo articolo: https://formiche.net/2014/07/i-trucchi-legali-merkel-imbellettare-i-conti-tedeschi/).

2) Dall’altro lato, i poteri forti miravano a mettere le mani sulle pubbliche partecipazioni e sul sistema bancario italiano e – di conseguenza – sulla Banca d’Italia. Questo è il delicato compito che non a caso Beniamino Andreatta affidò a due suoi fedelissimi: il suo assistente Romano Prodi all’IRI e il suo vecchio amico e coinquilino Giovanni Bazoli al Nuovo Banco Ambrosiano. Anni più tardi, l’opera venne magistralmente portata a termine da Mario Draghi.

Apro una parentesi: questo atteggiamento mentale è il medesimo che ha portato – da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – alla designazione dell’ex consulente della Presidenza del Consiglio Marco D’Alberti a giudice costituzionale alla vigilia della discussione sulla costituzionalità di un provvedimento governativo. Nessuno discute i meriti personali o la legittimità, ma tant’è…

Nel suo libro Cinquant’anni di vita italiana (edito nel 1992), l’ex Governatore della Banca d’Italia Guido Carli arriva a teorizzare che l’Italia fosse una Nazione incapace di autogovernarsi in materia economica e, pertanto, sia stato necessario creare un “vincolo esterno”. Col senno di poi, possiamo affermare senza timore di smentita che il “vincolo esterno” è diventato un guinzaglio troppo corto che ha strangolato il cane. In parole povere, il ragionamento del celebrato banchiere è quello di una madre che smette di dare la paghetta al figlio – costringendolo a ricorrere agli strozzini – per il suo bene, dato che sperpera i soldi. E questa semplificazione vale anche per le banche: le fondazioni locali avevano contribuito – per 500 anni – al benessere dei territori: i banchieri conoscevano le particolarità locali e a volte persino le singole persone. Oggi perfetti sconosciuti – quasi sempre al soldo di stranieri – speculano sulle necessità creditizie degli italiani.

 

Non si vuole in alcun modo tacere che nelle partecipazioni pubbliche e nelle banche detenute dalle fondazioni bancarie vi fossero ampie sacche di parassitismo e clientelismo, ma abbiamo gettato il bambino con l’acqua sporca.

 

Non tutti i Governatori della Banca d’Italia erano stati tanto critici nei confronti della politica. (Mi permetto una considerazione: se è comprensibile che il Governatore di una banca centrale cerchi di conciliare gli interessi dei proprietari con quelli dello Stato, è del tutto fuori luogo che si erga a giudice del comportamento dei rappresentanti – democraticamente eletti – di quello Stato e assuma decisioni destinate a danneggiarne l’economia nazionale).

Paolo Baffi venne liquidato (e sostituito da Carlo Azeglio Ciampi) a causa di un’inchiesta giudiziaria montata ad arte dai suoi oppositori (guarda caso democristiani). Paolo Baffi era un uomo integerrimo (“un socialista”, così lo definì il Professor Federico Caffè che lo conosceva bene dai tempi in cui era Direttore del Servizio Studi della Banca d’Italia, che Baffi diresse dal 1946 al 1956). Vicino ai laici del PRI e in particolare a Ugo La Malfa, aveva lottato a difesa dell’economia italiana (ad esempio insistendo che alla lira venisse concesso un margine di oscillazione del 6% in più e in meno all’epoca dello SME, cosa che aveva attenuato l’ingresso in quel sistema di cambi fissi che portò all’Euro e alla definitiva devoluzione della sovranità monetaria).

 

Proprio il Professor Federico Caffè, alla luce di quanto esposto, emerge come un gigante in mezzo ai nani. Per tutta la sua vita di economista non fece altro che porre al centro di ogni riflessione l’occupazione e – in alcuni memorabili articoli pubblicati sull’inserto economico del Messaggero e su L’Ora di Palermo – scrisse a chiare lettere che l’aumento dell’inflazione non avrebbe determinato il crollo del sistema produttivo. Il suo ragionamento è una limpida confutazione del pensiero di Beniamino Andreatta, secondo il quale il primo problema dell’economia italiana era l’inflazione.

Leggiamo ciò che scrisse il 30 ottobre 1984: “Le vicende storiche … ci hanno posto di fronte sia all’annullamento completo dell’unità monetaria (verificatasi due volte in Germania nell’arco di un ventennio); sia di fronte ai tassi annui di inflazione iperbolici, senza che l’economia del paese né esplodesse, né implodesse”. Al contrario, l’economia italiana uscì devastata dal divorzio tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia.

In proposito, un allievo illustre di Federico Caffè, il Professor Paolo Leon, è chiarissimo quando afferma “Mi battei come potevo contro quella che ritenevo una politica disastrosa, come solo oggi è palese”. (Postfazione al volume Contro gli incappucciati della finanza, tutti gli scritti di Federico Caffè il Messaggero 1974-1986, L’Ora 1983-1987, a cura di Giuseppe Amari, Ed. Castelvecchi).

Invito gli storici, gli economisti e i pubblicisti ad approfondire queste vicende della nostra storia recente.

La “Lite delle Comari” avrebbe potuto avere un esito diverso: è stata un momento di svolta importante e ricostruire lo scontro di potere sottostante è tutt’altro che uno sterile esercizio di dietrologia.





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