Cosa cambierà nei rapporti Usa-Ue con Trump. Parla l’ambasciatore Castellaneta

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Gli interessi Usa spaziano dal fronte latino-americano a quello dell’Indo-Pacifico. La nuova amministrazione Trump guarderà con minore attenzione all’Europa, che non è più una priorità e deve imparare a badare a se stessa. Conversazione con Giovanni Castellaneta, diplomatico ed ex-ambasciatore negli Usa.

America latina, Indo-Pacifico e rapporto con la Cina. Sono queste le priorità della nuova amministrazione Usa. L’Unione europea, con il conflitto in Ucraina, non è più, dunque, al centro delle attenzioni della politica estera statunitense. È questa l’analisi di Giovanni Castellaneta, ambasciatore d’Italia in Iran, Australia e negli Stati Uniti d’America, nonché portavoce del ministero degli Affari Esteri e consigliere diplomatico della Presidenza del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana per i Vertici del G8 del 2001 e del 2005.

Lei ha scritto di recente che un certo disimpegno degli Usa nei confronti della propria messianica visione di sé come esportatori e garanti della democrazia nel mondo risale al 2009, quando il presidente Usa era Barack Obama. Questo approccio cambierà con la nuova amministrazione?

Il disimpegno continuerà perché nessun Paese, in questo momento, è in grado di gestire in prima persona tutti i problemi del mondo. Insomma, gli Stati Uniti degli anni ’50 e ‘60 erano diversi. Dovevano confrontarsi con una sola altra superpotenza, l’Unione Sovietica. Attualmente, invece, sono entrati in scena nuovi attori, dalla Cina alla nuova Russia ai Brics, che hanno creato una situazione che, necessariamente, limita l’irradiamento del ruolo degli Stati Uniti nel mondo. E tutto questo vale sia per i democratici che per i repubblicani. Diciamo che, tradizionalmente, questi ultimi fanno pesare di più l’aiuto americano in caso di crisi, mentre i democratici si manifestano in maniera più soft. Dobbiamo ricordare che gli Stati Uniti sono assorbiti da tutto quello che succede nel lato sud, quindi dall’immigrazione clandestina e dalle criticità dell’America latina. Ecco, diciamo che preferiscono concentrare le loro forze su questi teatri. Medio Oriente, l’Europa e l’Ucraina saranno lasciati alla responsabilità dell’Unione europea.

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Nell’ultimo anno l’Unione europea ha aumentato del 14% la sua spesa per l’industria militare. Ci avviamo a un cambio di paradigma? E se sì in che modo questo può essere influenzato dalla nuova amministrazione Usa?

Il problema è che in Europa non c’è la condivisione delle varie componenti del settore militare, non c’è un’industria della difesa che collabora in maniera intensa come negli Stati Uniti. Gli armamenti europei sono frammisti, gli eserciti dei singoli Paesi impiegano armamenti non uniformi tra loro. Quindi non c’è una politica della difesa integrata come, per esempio, nel campo monetario e speriamo forse, un giorno, nel campo fiscale. Senza contare poi che nell’Europa attuale c’è una sola potenza nucleare, la Francia, e bisognerebbe capire come la potenza nucleare possa essere condivisa con gli altri Paesi europei. Quindi c’è una lunga strada da percorrere prima di tradurre questo 14%, o anche un 20%, in un effettivo miglioramento delle capacità difensive europee. Come si dice, in molti casi, non è solamente quanti soldi ci sono, ma come questi soldi vengono spesi.

Nel 2023 anche gli Stati Uniti hanno aumentato le spese militari del 2,3% raggiungendo i 916 miliardi di dollari, pari al 68% della spesa militare totale della Nato e al 37% delle spese militare a livello mondiale. In questo scenario quanto è plausibile un disimpegno degli Usa?

Il fronte che gli Stati Uniti guardano con maggiore preoccupazione è quello asiatico: quali potrebbero essere i movimenti della Cina, quale sarà l’avvenire di Taiwan nel lungo termine, come difendere il Giappone, le Filippine, e i Paesi del Sudest asiatico loro alleati. Quindi gran parte di questi aumenti sono concentrati su quell’area, per esempio per riequilibrare la flotta americana rispetto al fortissimo aumento della flotta cinese. Altri stanziamenti, inoltre, vanno alla difesa spaziale e al settore tecnologico dell’informatica applicata alla difesa, dai droni, ai radar, alla difesa elettronica. La guerra in Ucraina ci ha mostrato che le guerre moderne sono un misto tra scontro sul terreno, scontri aerei, con l’impiego di aerei e droni, e guerra elettronica e spaziale, con la conflittualità che si sposta alle strutture informatiche. La guerra in Ucraina ha insegnato molto, fino a qualche anno fa non si parlava di droni, adesso i droni sono diventati sempre più importanti. A poco a poco si va verso i veicoli non pilotati, anche veicoli più pesanti. È una rivoluzione nel mondo della difesa. A questo aggiungo il fronte del controllo del mare. Fino a qualche anno fa si riteneva che i trasporti via mare fossero lenti e ormai superati. Invece, abbiamo visto che è essenziale avere il controllo del mare dove, come sappiamo, passa gran parte del commercio internazionale.

Quali evoluzioni ci saranno nelle relazioni tra Usa e la regione dell’Indo-Pacifico e della Cina?

Sarà un equilibrio molto difficile. Da una parte, la Cina è troppo grande e non è immaginabile un contrasto militare, in questo momento. Quindi, bisogna tamponare, in un certo senso, le ambizioni cinesi e nello stesso tempo mantenere un rapporto fluido sul piano commerciale. La Cina ha bisogno del mercato americano ma il mercato americano ha bisogno di prodotti cinesi e anche dei chips prodotti da Taiwan per tutto quello che è l’informatica di base. Quindi è un difficile equilibrio che verrà risolto tenendo presente che ci si può difendere dalla Cina, ma non è immaginabile attaccare e rispondere sul piano militare perché sarebbe un impegno troppo gravoso per tutti. Quindi ci avviamo verso un equilibrio che dipenderà dai rapporti commerciali, da come evolveranno le produzioni industriali e il commercio internazionale nei nuovi settori del dell’elettrico, dei microchips, della tecnologia di avanguardia.

(Estratto dalla rivista Start Magazine)



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