l’unica certezza della pena in Italia è il suicidio

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Le nostre carceri traboccano di detenuti: in tanti si tolgono la vita perché costretti a vivere in condizioni degradanti e inumane. Ma per Nordio l’indulto sarebbe “segno di debolezza”

Mentre il ministro Nordio ribadiva l’ennesimo rifiuto ad ogni forma di provvedimento di clemenza, se ne andava il novantesimo detenuto, un giovane di 27 anni, che si è impiccato nel carcere di Piacenza. Si è portato via le sue ragioni disperate strette nel cuore, come gli altri 89 detenuti che in questo ultimo anno prima di lui hanno scelto di fare quell’ultimo terribile passo.

Sovraffollamento e suicidi continuano infatti a crescere. Per chi abbia visitato i reparti di un carcere sovraffollato non è difficile comprendere l’urgenza e la necessità di restituire dignità e umanità alle persone detenute. Ma anche a chi non ha mai visitato un carcere, non è difficile comprendere come il sovraffollamento impedisca ogni contatto umano, renda impossibile intercettare il disagio dei più sofferenti che spesso conduce a quel gesto estremo. L’idea del senatore Ostellari evidentemente non funziona: il sovraffollamento non solo non impedisce materialmente i suicidi, ma rende impossibile ogni forma di prevenzione, per cui non solo non evita ma favorisce la drammatica escalation.

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Nessuno risponde alla domanda che più volte è stata formulata sulle condizioni di coloro che usciranno dal carcere a fine pena, dopo aver vissuto nel degrado umano ed ambientale che le attuali condizioni carcerarie riservano ai condannati. Quali aspettative di reinserimento possiamo immaginare per quei detenuti che finiscono di espiare le loro condanne (a pene spesso brevi e per reati non gravi), nell’attuale stato di abbandono, senza un minimo di trattamento che il sovraffollamento stesso impedisce di somministrare? Saranno meno inclini alla recidiva di coloro che potrebbero essere rimessi anticipatamente in libertà? Quale calcolo statistico o quale ragionevole valutazione di buon senso fa immaginare che per la sicurezza dei cittadini sia meglio una ottusa intransigenza?

Simili questioni vengono accuratamente emarginate, negando l’emergenza e prospettando slogan e vuote formule di stile. Se si dovessero infatti mettere in fila gli argomenti spesi da governo e maggioranza per negare in radice la possibilità stessa di un qualche provvedimento di clemenza ne uscirebbe fuori un catalogo impressionante di affermazioni contraddittorie e di luoghi comuni. Non migliorano certo la situazione le ultime considerazioni sviluppate dal ministro Nordio, secondo il quale simili provvedimenti sarebbero “plausibili come segno di forza e di magnanimità, ma se vengono interpretati come provvedimenti emergenziali svuota-carcere sono manifestazioni di debolezza”.

Al centro del ragionamento non viene posta un’analisi concreta della realtà carceraria, ma soltanto la preoccupazione nei confronti della percezione che l’opinione pubblica avrebbe di un provvedimento clemenziale. C’è da chiedersi, al contrario, se possa mai apparire piuttosto “forte e magnanimo” uno Stato che consente il permanere di condizioni carcerarie sostanzialmente illegali, tanto degradate ed inumane da impedire ogni finalità costituzionale della pena. Si continuano, tuttavia, a prospettare le magnifiche sorti e progressive di piani carcere straordinari e di nuovi “condomini” per detenuti che, certo, come si ammette, “non sono cose che si improvvisano”, ma alle quali “si sta lavorando”. Si tratta infatti di progetti a lungo termine che, al di là della aderenza ad una idea di pena modernamente intesa, risultano dichiaratamente privi di un qualche possibile effetto immediato. Appare sufficiente rilevare come nessun serio programma di umanizzazione del contesto possa essere realizzato se non accompagnato da una seria e urgente manovra di decompressione.

Nonostante gli appelli autorevoli del capo dello Stato e del Papa, e le voci discordanti che invitano alla riflessione, sorte di recente all’interno della stessa maggioranza, siamo fermi su quella ostinata ripetizione di un modulo che oscilla fra la negazione della terribilità del presente e l’illusione risolutiva di un futuro prossimo venturo. Mentre il rifiuto di ogni rimedio deflattivo viene costantemente ribadito nel nome altisonante e vuoto della “certezza della pena”, formula salvifica che ha sostituito quella del “più carcere più sicurezza”, smentita da ogni dato empirico. Nel ventaglio delle proposte da respingere con fermezza, il Ministro evoca oggi quella di un improbabile “indulto incondizionato”.

Se è la mancanza di condizioni che ostacola il provvedimento di clemenza, basta ricordare che l’indulto è tipicamente, non solo corredato da esclusioni oggettive e soggettive, ma soprattutto condizionato alla eventuale recidiva. Se il detenuto ricade nel reato la pena rivive automaticamente. Sono molteplici le soluzioni di cui parlare capaci di risolvere il problema informando e rassicurando la collettività. Ma a forza di dire no ad ogni possibile soluzione ci si trova rinchiusi in un vicolo cieco a recitare il mantra della “pena certa”, mentre l’unica “certezza della pena” che dovrebbe essere promossa nell’interesse dei cittadini è quella che ogni pena venga scontata nel rispetto dell’umanità e della dignità del condannato e finalizzata concretamente al suo reinserimento sociale.

*Presidente dell’Unione Camere Penali



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