In cartelloni che prediligono la tradizione, si riconoscono varie perle di qualità
Se Torino non è più capitale d’Italia dal lontano 1864 (e nell’anno appena concluso, per gli amanti delle statistiche, ricorrevano i 160 anni!) e se anche il suo ruolo di grande centro industriale negli ultimi lustri è stato messo seriamente in discussione, la città subalpina conserva per fortuna una preminenza in campo musicale: nel panorama italiano e non solo, è uno dei luoghi che, nell’arte di Euterpe, si caratterizza per un’ampia offerta in ogni campo. Il fatto ha una certa rilevanza. In platea al Teatro Regio si sentono con frequenza sempre maggiore lingue straniere. Il francese, per motivi geografici, predomina ma un tempo sarebbe stato impensabile.
Visto che è stato appena evocato, partiamo allora dal del massimo teatro cittadino che nella parte di 2024 che riguarda la passata stagione ha potuto contare su un cartellone piuttosto tradizionale nella scelta di titoli e interpreti con qualche ventata di novità confinata all’esplorazione di lavori pucciniani meno frequentati, nell’omaggio ineludibile ai 100 anni della scomparsa del grande compositore lucchese, soprattutto nello scorcio finale della programmazione.
Si sono così potuti ascoltare, in primavera, a distanza ravvicinata La fanciulla del West, Le Villi e Il Trittico. In Fanciulla si è apprezzato l’allestimento di Valentina Carrasco con un esperimento di teatro nel teatro, non esente da sporadiche macchinosità, ma con trovate originali che arricchiscono la messinscena senza snaturare l’ambientazione originaria. Sul fronte squisitamente musicale alla bacchetta di Francesco Ivan Ciampa è stato affidato il compito di bilanciare, con esiti buoni dal punti di vista ritmico e dinamico a scapito talvolta della ricerca timbrica, voci diverse come quelle di Oksana Dyka, di robusta intonazione e volume, e di Amadi Lagha, suo partner in alcune recite, più leggera e di minor drammaticità.
La scelta di dedicare a Le Villi un intero spettacolo, senza accoppiamenti con altri titoli come di norma avviene, ha consentito di mettere a fuoco i pregi dell’opera di esordio di Giacomo Puccini, con evidenti influssi del romanticismo di matrice germanica declinati con una sensabilità tutta latina, grazie all’attenta e curata direzione di Riccardo Frizza, affiancato dai cantanti Roberta Mantegna, Azer Zeda e, last but not least, il baritono Simone Piazzola che, nel ruolo di Guglielmo Wulf, emerge come vero trionfatore della recita la cui parte registica, di forte sapore onirico, era firmata da Pier Luigi Maestrini.
Chiusura di stagione con le tre opere del Trittico tutte nella stessa serata. Ne sortisce una rappresentazione monstre per durata, improntata alla visione contemporanea di Tobias Kratzer sul versante scenico, dove nel desiderio di rendere coerenti e trovare un trait d’union tre atti così diversi, qualcosa si perde in profondità pur raggiungendo a tratti un sincero afflato poetico evidente in particolar modo in Suor Angelica. La guida dell’orchestra da parte di un vecchio leone quale Pinchas Steinberg consente di condurre in porto una traversata musicale non priva di insidie, a costo di tralasciare qua e là le raffinatezze disseminate nella partitura, ma capace di mettere in risalto i pregi del cast vocale: si elevano, su tutti, Roberto Frontali (Michele nel Tabarro e protagonista in Gianni Schicchi) e il soprano russo Elena Stikhina (anche lei divisa tra il duplice ruolo di Giorgetta e Suor Angelica).
Tra le altre opere proposte, segnaliamo il repertorio di un Don Pasquale nello storico e collaudatissimo allestimento di Ugo Gregoretti, con la coppia Nicola Alaimo e Maria Grazia Schiavo punzeccchiata dalla sagace bacchetta di Alessandro De Marchi, e un verdiano Ballo in maschera invece costruito per intero sulla figura destinata a salire sul podio, per l’occasione nientemeno che il mostro sacro Riccardo Muti. Il quale, pur pigiando spesso sul pedale della sonorità e staccando tempi non troppo veloci, offre una lettura di indiscusso fascino e personalità, risoluta, sanguigna e in grado di valorizzare con rara ed eccezionale maestria il timbro dell’orchestra del Regio. L’esperienza di Muti riesce a far passare in secondo piano talune debolezze della compagnia di voci. Accanto ai volenterosi Lidia Fridman e Luca Micheletti, il più applaudito è Piero Pretti nel ruolo di Riccardo.
Spostandoci alla stagione 2024-2025, l’evento degno di maggior attenzione è stato finora la presentazione nel mese di ottobre dei tre lavori ispirati dal romanzo dell’Abbé Prevost; a fianco delle assai note Manon Lescaut di Giacomo Puccini e Manon di Jules Massenet ha fatto così la sua comparsa anche Manon Lescaut di Daniel Auber, tutte sotto la regia di Arnaud Bernard, che individua nel cinema francese, in tre differenti momenti della sua storia, il minimo comun denominatore dei tre spettacoli. Obiettivo ambizioso e, a conti fatti, riuscito pur con qualche inevitabile forzatura. Peccato per la partecipazione non massiccia di un pubblico che spesso ha lasciato in platea molti posti vuoti ma la scelta dei vertici dell’ente lirico di non includere in abbonamento il mini-ciclo ha avuto senza dubbio il suo peso. Tra i due spettacoli cui ho assistito, nell’opera pucciniana, diretta da Renato Palumbo, a colpire è in primo luogo il basso Carlo Lepore nei panni di Geronte, dai mezzi vocali potenti e dalla adeguata presenza scenica. Alti e bassi, con punte di autentica emotività espressiva, per il soprano Maria Teresa Leva e i tenori Carlo Ventre e Giuseppe Infantino.
Gradevolissima sorpresa, Manon Lescaut di Auber ha in sè elevati pregi musicali e non meriterebbe davvero l’oblio in cui, al di fuori della Francia, è caduta. Alla tradizionale coppia di protagonisti, si ha un inedito terzetto composto dall’omonima eroina (nello specifico la canadese Marie-Eve Munger), dal Marchese d’Hérigny (il baritono Edward Nelson) e dall’immancabile Des Grieux (il tenore Marco Ciaponi). Tutti i tre cantanti forniscono una prova generosa e coraggiosa, ben amalgamati dalla direzione di Guillaume Tourniaire alla testa dei complessi del Teatro Regio che, con l’orchestra e lo splendido coro istruito da Ulisse Trabacchin, si confermano un’eccellenza nazionale nel settore.
Nella lunga programmazione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale, tanti sarebbero i concerti degni di nota, a partire, per andare in ordine cronologico, dall’Ottava di Šostakovič diretta a fine gennaio dal giovane Dmitry Matvienko (classe 1990) in un’esecuzione magari non perfetta e levigata ma densa di spunti interessanti e idee un po’ temerarie, senza soggezione di fronte a un’opera capitale del sinfonismo novecentesco. Lo stesso mese di gennaio ha visto sul podio la classe di Michele Mariotti in una serata ancora dedicata alla Russia del secolo scorso con Jeu de cartes di Stravinskij e il Concerto-rapsodia di Chačaturjan con il raffinato violoncello di Ettore Pagano. Sempre atteso è il ritorno di Juraj Valčuha con un’orchestra che è stata il trampolino di lancio per la sua carriera internazionale, con una Seconda di Schumann al calor bianco e una poetica lettura del primo concerto di Brahms con l’ucraino Dmytro Choni chiamato all’ultimo a sostituire Yefim Bronfman. Un mostro sacro che difficilmente delude è Mischa Maisky, chiamato a marzo a presentare l’impegnativo concerto per violoncello n. 1 di Šostakovič, accompagnato dalla coreana Han-na Chang, gesto fin troppo didascalico e non bellissimo a vedersi ma efficace nella resa, anche nella complessa Quinta sinfonia di Prokof’ev. Prosegue lo scandagliamento del grande repertorio da parte del direttore principale Andrés Orozco-Estrada: Mozart, Strauss (Ein Heldenleben), Berlioz (Symphonie Fantastique), Beethoven (terzo concerto con Emanuel Ax, che a 75 anni è ancora al culmine della sua arte, e concerto per violino con Nikolaj Szeps-Znaider), Ginastera con le sorprendenti Variazioni concertanti. Il direttore colombiano talvolta non sviscera così a fondo l’espressione, ma la conoscenza della strumentazione e le qualità tecniche non sono in discussione e sotto la sua guida l’Orchestra Sinfonica Nazionale sfodera un suono versatile e di grande bellezza. In primavera passa sotto la Mole Yulianna Avdeeva, pianista a dir poco strepitosa sotto ogni aspetto, con una memorabile interpretazione della Sinfonia The Age of Anxiety a fianco di Robert Treviño, che si dimostra attento e consapevole pure nella Symphony in three movements di Stravinskij e in Doctor Atomic Symphony di John Adams. A costo di trascurare altri interpreti meritevoli passati per l’auditorium Toscanini non si possono non citare due maestri italiani del calibro di Daniele Gatti e Marco Angius. Il primo regala al pubblico torinese una Decima di Šostakovič di rara coesione emotiva; il secondo si conferma autorevole punto di riferimento nella musica degli ultimi decenni proponendo accanto a pagine di Giuseppe Sinopoli a Claudio Ambrosini lo splendido Il Vitalino raddoppiato di Hans-Werner Henze, con solista al violino la bravissima Anna Tifu.
Più ridotta, infine, rispetto al passato, è stata l’edizione 2024 di MiTo Settembre Musica. Tra i musicisti che hanno lasciato il segno si debbono a mio parere annoverare il Quartetto Goldberg formato da una cinese e tre italiani, tutti assai giovani, che hanno affascinato il pubblico in un concerto interessantissimo e non banale incentrato sul Novecento italiano (lavori di Malipiero, Casella e Respighi) e il pianista inglese Nicolas Hodges, in grado di ricavare dal suo strumento preziose sfumature timbriche, che ha accostato in maniera convincente nella medesima serata due pagine agli antipodi quali la Sonata D 840 di Franz Schubert e la grandiosa e misteriosa (e faticosa!) Sonata di Jean Barraqué.
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