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Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 176 depositata il 3 gennaio 2024 – Colui che, assumendo di essere erede di una delle parti originarie del giudizio, intervenga in un giudizio civile pendente tra altre persone, ovvero lo riassuma a seguito di interruzione, o proponga impugnazione, deve fornire la prova, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., oltre che del decesso della parte originaria, anche della sua qualità di erede di quest’ultima; a tale riguardo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui agli artt. 46 e 47 del P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, non costituisce di per sé prova idonea di tale qualità, esaurendo i suoi effetti nell’ambito dei rapporti con la P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi, dovendo tuttavia il giudice, ove la stessa sia prodotta, adeguatamente valutare, anche ai sensi della nuova formulazione dell’art. 115 cod. proc. civ. #finsubito prestito immediato

Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 176 depositata il 3 gennaio 2024 – Colui che, assumendo di essere erede di una delle parti originarie del giudizio, intervenga in un giudizio civile pendente tra altre persone, ovvero lo riassuma a seguito di interruzione, o proponga impugnazione, deve fornire la prova, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., oltre che del decesso della parte originaria, anche della sua qualità di erede di quest’ultima; a tale riguardo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui agli artt. 46 e 47 del P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, non costituisce di per sé prova idonea di tale qualità, esaurendo i suoi effetti nell’ambito dei rapporti con la P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi, dovendo tuttavia il giudice, ove la stessa sia prodotta, adeguatamente valutare, anche ai sensi della nuova formulazione dell’art. 115 cod. proc. civ. #finsubito prestito immediato


Corte di Cassazione, sezione tributaria, ordinanza n. 176 depositata il 3 gennaio 2024

prove presuntive

Rilevato che:

1. Con ordinanza n. 6854, depositata l’11 marzo 2021, questa Corte, decidendo, per quanto qui rileva, sul ricorso riunito n.r.g. 11273/2014, proposto da D.A.M. contro l’Agenzia delle entrate- nonché contro il Fallimento società sportiva N. Calcio s.p.a., in persona del curatore Fallimentare; O.F.A. “Careca”; e D.B.R. “Alemao”- così decise:

«Riuniti i ricorsi; accoglie i profili B e C del primo motivo del ricorso principale del contribuente Maradona nel procedimento 11273/2014; rigetta il profilo A del primo motivo; dichiara assorbiti i restanti; rigetta il ricorso incidentale condizionato della Agenzia delle entrate; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto (profili B e C), con rinvio alla Commissione regionale della Campania, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità. Dichiara inammissibile il ricorso della Agenzia delle entrate nel procedimento 7448 del 2014.».

2. Con successivo ricorso, D.A.M. Jr, dichiarandosi erede universale del contribuente D.A.M., deceduto nella pendenza della medesima controversia innanzi a questa Corte, ha riassunto il giudizio dinanzi la Commissione Tributaria Regionale per la Campania.

L’Agenzia delle entrate, costituitasi, ha sollecitato il rigetto del ricorso in riassunzione rilevando, per quanto qui interessa, in via pregiudiziale, che l’istante non aveva in alcun modo comprovato di essere erede del defunto D.A.M..

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Con la sentenza di cui all’epigrafe, la C.T..R della Campania, giudice del rinvio, ha accolto l’eccezione sollevata dall’Agenzia ed ha rigettato il ricorso in riassunzione, argomentando che : « Invero è fondata e va accolta l’eccezione preliminare della agenzia, di difetto di  legittimazione attiva del    ricorrente  in   riassunzione,  D.A.M.     Jr     n.  1986;     questi si  qualifica  nella intestazione del ricorso “erede universale” di D.A.M. n. 1960, ma null’altro deduce, né offre di provare, al riguardo, circa la qualità dichiarata, che sola potrebbero legittimarlo alla riassunzione del giudizio (è appena il caso di ricordare che egli non è stato parte di nessuno dei precedenti giudizi, compreso quello innanzi la S.C.); invero non documenta neppure il decesso del suo preteso dante causa (che, certo, può fondarsi sul notorio, attesa la sicura celebrità del calciatore argentino: ma lo stesso non può certo dirsi dell’odierno ricorrente, che invece avrebbe dovuto documentare specificamente la qualità di erede in parola, nelle forme di legge); Giova ricordare che il ricorrente, anche nel giudizio tributario, deve provare la propria legittimazione attiva, specie a fronte di specifica contestazione, come nella specie: si tratta comunque di eccezione in senso lato, sicché il difetto di legittimazione attiva comunque sarebbe rilevabile anche d’ufficio;

Il difetto di legittimazione attiva comporta non la pronuncia in rito di inammissibilità ma quella in merito di rigetto del ricorso; ogni altra questione è assorbita;».

3. Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, D.A.M. Jr.

L’Agenzia delle entrate si difende con controricorso.

Rimangono intimati il Fallimento società sportiva N. Calcio s.p.a., in persona del curatore Fallimentare; O.F.A. “Careca”; e D.B.R. “Alemao”.

Considerato che:

1. Preliminarmente, all’esito della consultazione del fascicolo, non vi è in atti prova relativa all’invio ed al perfezionamento della notifica del ricorso alle controparti diverse dall’Agenzia delle entrate, rimaste contumaci di fronte alla CTR.

Il ricorso va quindi dichiarato inammissibile nei confronti delle parti cui non risulta notificato, senza che peraltro si debba ordinare l’integrazione del contraddittorio nei loro confronti.

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Invero, in ragione della definizione della lite tributaria sostanziale nei confronti di tali parti, con la prosecuzione del giudizio di rinvio nell’interesse del solo D.A.M. e dell’ente impositore, non si ravvisa l’esigenza di un litisconsorzio necessario e della relativa integrazione del contradditorio relativamente a soggetti diversi dagli attuali ricorrente e controricorrente.

Inoltre, tenuto conto di quello che infra isi evidenzierà a proposito della palese infondatezza del ricorso, deve rammentarsi che comunque, secondo questa Corte, « Nel giudizio di cassazione, il rispetto del principio della ragionevole durata del processo impone, in presenza di un’evidente ragione d’inammissibilità del ricorso o qualora questo sia “prima facie” infondato, di definire con immediatezza il procedimento, senza la preventiva integrazione del contraddittorio nei confronti dei litisconsorti necessari cui il ricorso non risulti notificato, trattandosi di un’attività processuale del tutto ininfluente sull’esito del giudizio e non essendovi, in concreto, esigenze di tutela del contraddittorio, delle garanzie di difesa e del diritto alla partecipazione al processo in condizioni di parità» (Cass. 10/05/2018, n. 11287: nella specie, la S.C. ha rigettato il ricorso, stante la palese infondatezza, nonostante lo stesso non fosse stato notificato a dei condomini di un edificio, litisconsorti necessari, per evitare un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue).

Tanto più che la Corte di cassazione, ove sussistano cause che impongono di disattendere il ricorso, è esentata, in applicazione del principio della “ragione più liquida”, dall’esaminare le questioni processuali concernenti la regolarità del contraddittorio o quelle che riguardano l’esercizio di attività defensionali delle parti poiché, se anche i relativi adempimenti fossero necessari, la loro effettuazione sarebbe ininfluente e lesiva del principio della ragionevole durata del processo (Cass. 18/04/2019, n. 10839 del 18/04/2019).

Pertanto, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso nei confronti delle parti diverse dall’Agenzia delle entrate, nulla dovendosi provvedere sulle relative spese.

2. Con il primo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli 81 cod. proc. civ., 2697 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n.4 cod. proc. civ.

Il ricorrente deduce che in caso di successione ab intestato, la qualità di erede è dimostrata attraverso l’esistenza del rapporto di filiazione e della volontà di accettare la successione, manifestata proprio facendo valere in via giudiziale i diritti già nel patrimonio del de cuius. Aggiunge poi che, nel caso di specie, egli è notoriamente il figlio naturale di D.A.M., il quale altrettanto notoriamente lo aveva riconosciuto, e che lo stesso genitore è, sempre notoriamente, defunto.

3. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli 301 e 303 cod. proc. civ. e 63 d.lgs. n. 546 del 1992, sempre in relazione all’art. 360, primo comma, n.4 cod. proc. civ.

Deduce il ricorrente che essendo il giudizio di rinvio una semplice prosecuzione delle precedenti fasi del giudizio, la procura, rilasciata dal de cuius ai propri difensori anche per assumere la rappresentanza e difesa in sede di legittimità, legittimava, di per sé sola, questi ultimi comunque a riassumere il processo davanti al giudice del rinvio. Pertanto, atteso che il ricorso in riassunzione era stato sottoscritto dagli stessi difensori ai quali era stato attribuito dal defunto lo jus postulandi anche per il giudizio di legittimità, era comunque legittima la riassunzione del processo di rinvio nell’interesse della parte deceduta, mentre il conferimento di procura anche da parte dell’erede aveva solo aggiunto un ulteriore soggetto a quelli già legittimati al ricorso. La CTR avrebbe pertanto dovuto considerare il ricorso per riassunzione ammissibile, in ragione dell’esercizio dei poteri conferiti ai medesimi difensori con la procura dalla parte originaria D.A.M..

4. I due motivi, per la loro connessione, vanno trattati congiuntamente e sono infondati.

Appare opportuno richiamare alcuni aspetti della fattispecie che risultano accertati e comunque non contestati già in ragione del ricorso e della sentenza impugnata.

Innanzitutto, lo stesso ricorrente esplicitamente deduce che (come del resto premesso nella sentenza impugnata) il ricorso per riassunzione è stato proposto da «D.A.M. jr. in qualità di figlio ed erede di D.A.M.» (pag. 2 ricorso).

Inoltre, dal ricorso, dal controricorso e dalla sentenza impugnata si evince univocamente che l’Agenzia delle entrate, nel giudizio di riassunzione, ha eccepito che lo stesso D.A.M. jr. non avrebbe provato la propria legittimazione quale erede del defunto. Invero, la sentenza impugnata ha rilevato anche che la contestazione erariale era specifica. La proposizione rituale dell’eccezione non è quindi in discussione in questa sede.

Deve poi darsi atto che il presupposto dell’apertura della successione, ovvero il decesso dell’originaria parte D.A.M., è stato positivamente accertato dalla sentenza impugnata che, pur dando atto che il ricorrente in riassunzione non aveva documentato tale circostanza, ha ritenuto che quest’ultima potesse «fondarsi sul notorio».

Ancora, deve darsi atto che (come si attesta nella stessa sentenza impugnata e come, del resto, è necessariamente presupposto dalle difese di ambedue le parti), D.A.M. jr. non è mai stato parte nei gradi di giudizio che hanno preceduto il ricorso per riassunzione, il quale ha segnato il suo esordio nel processo.

Infine, deve rilevarsi che, nel corpo del ricorso per cassazione sub iudice, lo stesso ricorrente non deduce di aver documentato, nel giudizio a quo, in alcun modo la propria legittimazione quale erede del defunto D.A.M., non indicando specificamente alcun mezzo istruttorio con il quale abbia supportato la relativa allegazione, contestata specificamente dall’Agenzia, e limitandosi, in sostanza, ad invocare, sotto il profilo strettamente probatorio, la mancata rilevazione della notorietà della sua discendenza dal defunto.

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4. Tanto premesso, va allora ricordato che, per consolidato principio di questa Corte, «Colui che, assumendo di essere erede di una delle parti originarie del giudizio, intervenga in un giudizio civile pendente tra altre persone, ovvero lo riassuma a seguito di interruzione, o proponga impugnazione, deve fornire la prova, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., oltre che del decesso della parte originaria, anche della sua qualità di erede di quest’ultima; a tale riguardo la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui agli artt. 46 e 47 del P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, non costituisce di per sé prova idonea di tale qualità, esaurendo i suoi effetti nell’ambito dei rapporti con la P.A. e nei relativi procedimenti amministrativi, dovendo tuttavia il giudice, ove la stessa sia prodotta, adeguatamente valutare, anche ai sensi della nuova formulazione dell’art. 115 cod. proc. civ., come novellato dall’art. 45, comma 14, della legge 18 giugno 2009, n. 69, in conformità al principio di non contestazione, il comportamento in concreto assunto dalla parte nei cui confronti la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà viene fatta valere, con riferimento alla verifica della contestazione o meno della predetta qualità di erede e, nell’ipotesi affermativa, al grado di specificità di tale contestazione, strettamente correlato e proporzionato al livello di specificità del contenuto della dichiarazione sostitutiva suddetta.» (Cass., Sez. U, 29/05/2014, n. 12065; conformi, ex plurimis Cass. 10/05/2018, n. 11276; Cass. 15/05/2020, n. 8973).

Più in generale, è stato chiarito che « L’erede che intenda esercitare un diritto riconducibile al “de cuius” deve allegare la propria legittimazione per essere subentrato nella medesima posizione di quello, fornendo la prova, mediante la produzione in giudizio di idonea documentazione, del decesso della parte originaria e della propria qualità di erede; solo successivamente acquisisce rilievo l’accettazione dell’eredità, la quale può anche avvenire tacitamente, attraverso l’esercizio di un’azione petitoria.» (Cass. 11/08/2021, n. 22730).

In particolare, in ordine alla necessaria prova (quanto meno) della relazione familiare sulla quale dovrebbe innestarsi la delazione ereditaria, che il ricorrente avrebbe dimostrato di accettare attraverso la stessa riassunzione del giudizio di cui era parte il de ciuius, questa Corte ha pure precisato che « Qualora si verifichi la morte della parte ed il processo venga riassunto da un soggetto che si qualifichi erede del “de cuius”, in qualità di figlio del medesimo, dimostrando la relazione familiare, pur senza specificare di quale tipo di successione si sia trattato e senza indicare in che modo sia avvenuta l’accettazione dell’eredità, l’atto di riassunzione, in quanto proveniente da un soggetto che si deve considerare certamente chiamato all’eredità quale che sia il tipo di successione, va considerato come atto di accettazione tacita dell’eredità e, quindi, idoneo a far considerare dimostrata la legittimazione alla riassunzione (principio affermato dalla Suprema Corte in relazione a fattispecie in cui si trattava di riassunzione a seguito di cassazione con rinvio ed era stato prodotto certificato di famiglia per dimostrare la relazione parentale).» (Cass. 01/07/2005, n. 14081).

Peraltro, questa Corte ha anche ritenuto che «In tema di successione legittima, il rapporto di parentela con il “de cuius”, quale titolo che, a norma dell’art. 565 c.c., conferisce la qualità di erede, deve essere provato tramite gli atti dello stato civile. Tuttavia, ove essi manchino o siano andati distrutti o smarriti ovvero, ancora, omettano la registrazione di un atto, la prova dei fatti oggetto di registrazione – quali la nascita, la morte o il matrimonio – può essere data con qualsiasi mezzo, ai sensi dell’art. 452 c.c.» (Cass. 14/10/2020, n. 22192).

A tali principi si è uniformata la sentenza impugnata, non solo nella corretta attribuzione dell’onere probatorio, in ordine alla dedotta qualità di figlio e di erede del defunto contribuente, in capo al ricorrente per riassunzione; ma anche nell’accertare (finanche in assenza di documentazione probatoria prodotta dal ricorrente per assolvere l’onere a suo carico) l’avvenuta contestazione, ed il suo contenuto specifico, ad opera della controparte.

5. Assume il ricorrente che la CTR avrebbe dovuto affermare che (anche) la circostanza che D.A.M. jr. sia figlio di D.A.M. costituirebbe, al pari dell’avvenuto decesso di quest’ultimo, un fatto notorio, e come tale non avrebbe necessitato di prova.

Anche tale argomento è infondato.

Infatti, come questa Corte ha già chiarito, « Il ricorso, da parte del giudice, alle nozioni di fatto di comune esperienza, le quali riguardano fatti acquisiti alla conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili, e non anche elementi valutativi che implicano cognizioni particolari ovvero nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, attiene all’esercizio di un potere discrezionale; pertanto la violazione dell’art. 115, comma 2, c.p.c. può configurarsi solo quando il giudice ne abbia fatto positivamente uso e non anche ove non abbia ritenuto necessario avvalersene, venendo in tal caso la censura ad incidere su una valutazione di merito insindacabile in sede di legittimità.» (Cass. 20/03/2019, n. 7726).

Nello stesso senso, si è ribadito che « In tema di prova civile, il ricorso alla nozione di “comune esperienza” (fatto notorio), da interpretare in senso rigoroso come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile, costituendo una deroga al principio dispositivo ex art. 112 c.p.c. e al principio di disponibilità delle prove ex art. 115 c.p.c., rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. nuova formulazione, sicché può essere censurata in sede di legittimità la sola inesatta nozione del medesimo, ma non anche la sua mancata applicazione.» (Cass. 20/02/2020, n. 4428).

Ed è stato comunque chiarito che «In tema di prova civile, in sede di legittimità è censurabile per violazione di legge l’assunzione da parte del giudice di merito di una inesatta nozione di fatto notorio – da intendere come fatto conosciuto da uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo – e non anche il concreto esercizio del suo potere discrezionale di ricorrere alla massima di esperienza, che può essere censurato solo per vizio di motivazione.» (Cass. 03/03/2017, n. 5438).

Nel caso di specie, non è quindi censurabile in questa sede, quale violazione di legge sostanziale o processuale, la mancata applicazione, da parte della CTR, del preteso fatto notorio de quo, peraltro frutto di una consapevole valutazione espressa nella motivazione della sentenza impugnata.

6. Giova poi aggiungere l’assoluta genericità dei riferimenti, nel ricorso, alla circostanza che il rapporto di filiazione in questione sarebbe noto all’Amministrazione per essere “inserito tra l’altro in banca dati dell’agenzia delle entrate», o per emergere “dalla stessa banca dati ed anagrafe tributaria in uso a parte resistente”. Peraltro, nella tesi del ricorrente, tali (astratti e generici) riferimenti a notizie in possesso dell’Amministrazione dovrebbero concorrere (unitamente ad ipotizzate evidenze mediatiche ed a provvedimenti giudiziari evocati senza alcun dato concreto che ne consenta individuazione e riscontro) a determinare “il fatto notorio”, il cui mancato riconoscimento ed utilizzo comunque, per quanto già rilevato, non è sindacabile in questa sede.

7. Altrettanto infondata è la pretesa del ricorrente di basare la legittimazione del ricorso per riassunzione sulla sopravvivenza della procura alle liti conferita, per il giudizio di legittimità a monte del giudizio di rinvio, da D.A.M., ancora in vita, ai medesimi difensori che hanno patrocinato il ricorso per riassunzione di D.A.M. jr.

Infatti, come già chiarito, è pacifico (deducendolo lo stesso ricorrente esplicitamente ed essendo del resto premesso nella sentenza impugnata, senza contestazioni sul punto) che il ricorso per riassunzione è stato proposto da «D.A.M. jr. in qualità di figlio ed erede di D.A.M.» (pag. 2 ricorso). È quindi certo che lo ius postulandi che i difensori in questione hanno esercitato ai fini della riassunzione è quello loro conferito, con la procura finalizzata allo stesso ricorso, dall’assunto erede, in nome e per conto del quale hanno esercitato la rappresentanza tecnica processuale.

Premessa quindi l’indubbia identificazione della parte ricorrente per la riassunzione nella persona dell’ assunto erede D.A.M. jr., non rileva che gli stessi difensori avessero in precedenza ricevuto procura dal preteso dante causa D.A.M., in quanto, persistendo o meno il relativo jus postulandi dopo il decesso di quest’ultimo, esso non è stato esercitato nel caso di specie, poiché il ricorso non è stato proposto in nome e per conto dell’originaria parte, benché defunta. In parte qua, quindi, le censure del ricorrente non attingono l’atto introduttivo del giudizio per riassunzione proposto alla CTR, ma ipotizzano una diversa potenziale legittimazione alternativa, senza dedurre specificamente che essa sia stata esercitata, ma fondandola sulla mera coincidenza dei difensori del de ciuius con quelli dell’asserito erede.

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Fermo quanto appena premesso, deve aggiungersi che la dedotta sopravvivenza dello ius postulandi del difensore al decesso della persona fisica che ha conferito la relativa procura trova un limite nella comunicazione, da parte dello stesso difensore, dell’avvenuta causa interruttiva (cfr. Cass. 10/01/2006, n. 144; Cass. 30/04/2014, n. 9480; Cass. 07/01/2016, n. 92; Cass. 07/05/2021, n. 12183).

Il che è proprio quanto avvenuto nel caso di specie, nel quale la costituzione (con il ricorso per la riassunzione del giudizio di rinvio) dell’assunto erede dell’originaria parte defunta comporta, necessariamente, la denuncia e la comunicazione (peraltro esplicita), con notificazione alle altre parti, del decesso della medesima parte, anche se effettuata non al fine di far interrompere il processo, ma di proseguire il giudizio nei confronti di colui che del de cuius si dichiara successore. E tanto è logicamente e giuridicamente incompatibile con l’affermazione (invero ex post, ovvero nel ricorso per cui qui si procede) della contemporanea ultrattività, in capo al medesimo difensore, del mandato conferito in vita dal deceduto in un precedente grado di giudizio.

8. Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.



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