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Stefano Cusin: “Io, Gaza, le Comore, la Palestina, il mio giro del mondo” #finsubito prestito immediato – richiedi informazioni –


La vita da Gulliver dell’allenatore toscano, da vent’anni all’estero: “In Palestina mi portarono in un bunker, volevano sapere come far crescere il calcio a Gaza. A Tripoli Gheddafi mi diede il visto in 5 minuti, e al confine con la Tunisia salvai un bambino. In Iran mi imprigionarono all’aeroporto e un ucraino mi salvò. Alle Comore ci sfottevano, e invece…”

Gabriele Ragnini

A sentir parlare Stefano Cusin, si ha l’impressione che abbia passato la sua vita sulla stessa mongolfiera spinta in giro per il mondo dalla penna di Jules Verne. In vent’anni di carriera da allenatore, le storie raccolte negli ottanta giorni di Phileas Fogg: a farlo svolazzare da una parte all’altra non è stato però un pallone ad aria calda, ma quello che rotolava sui campi di Paesi come Camerun, Sud Sudan e Libia, fino alle Isole Comore. È lì che solo due settimane fa ha portato la nazionale a una storica seconda qualificazione in Coppa d’Africa. “In realtà sono ad Arezzo, ma sabato torno alle Comore. Vedremo il Capo di Stato e i tifosi: sono contentissimi perché abbiamo battuto il Madagascar dopo 46 anni. C’è una forte rivalità nonostante siano un continente rispetto a noi. Sui social ci lanciavano sfottò: ‘Che ne sapete di calcio voi? Siete tre piccole isole’. Ora abbiamo scritto la storia”. Nel mezzo: racconti di sciamani, incontri con animali della savana, principi sauditi, presidenti figli di dittatori e terroristi. Mancherebbero solo i lillipuziani di Gulliver, chissà che non sia solo questione di tempo.

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Lei è nato a Montreal ed è cresciuto in Francia, per poi arrivare a vivere ad Arezzo. Ma come è finito a viaggiare per le panchine di tutto il mondo?

“In realtà allenavo per hobby gli allievi del Montevarchi, di mestiere facevo l’imprenditore nel campo della ristorazione. Era il 2003. Gestivo dei locali con un socio che lavorava in banca, guadagnavo anche bene. A un certo punto volevo provare a far diventare quello dell’allenatore un mestiere. Su internet trovai il numero di un agente africano, lo chiamai e mi disse: ‘Mio fratello è vicepresidente della federazione del Camerun, stiamo cercando qualcuno che venga qui a portare un po’ di calcio dal background europeo’. Inizialmente andai due settimane per un progetto con i giovani, poi mi richiamarono”.


Cusin e Materazzi

E ha deciso di lasciare la famiglia?

“Il mio ex suocero mi disse ‘Hai una moglie, un bambino piccolo, guadagni bene e non ti manca niente: chi te lo fa fare?’. Risposi che credevo in me e che volevo darmi 4-5 anni per provarci, altrimenti sarei tornato a vendere i caffè”.

Così arriva in Camerun. 

“Ho venduto tutte le mie attività e sono partito verso Douala. Lì ho capito subito che per molti la vita fosse infernale, c’erano baraccopoli e persone in strada. Ma molti ragazzi giocavano tutto il giorno proprio tra le vie della città, capii che potevano esserci dei talenti. Così ho deciso di iniziare a fare dei giri e portare con me una telecamera, per filmarli e ricordami chi fossero o dove si trovassero. Alcuni non avevano neanche un indirizzo, una casa”.

“Si giocava sette contro sette su un campo sterrato fatto di sassi. I ragazzi cadevano e non si facevano niente, era incredibile. C’erano anche degli arbitri improvvisati che al posto della bandierina usavano i rami delle palme, le alzavano e le abbassavano. Notai un centrocampista con visione e tempi di gioco. Era Daniel Maa Boumsong, che poi sarebbe arrivato all’Inter”.

A Douala, in Camerun, la vita era infernale. C’erano baraccopoli e persone in strada, ma anche ragazzi che giocavano tutto il giorno. Capii che potevano esserci talenti

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Stefano Cusin

Quindi lo ha portato lei in Italia?

“Mettemmo su una squadra di giocatori da far allenare e strutturare con i metodi italiani, portandoli poi da noi. Esordimmo in un torneo amichevole con il Perugia di Gaucci e vincemmo 2-0. Non erano abituati a niente di tutto ciò che vediamo qui: dopo la partita, si fecero la doccia con le tute addosso, perché lì in Camerun sono abituati a giocare e lavarsi nei fiumi, lasciando poi asciugare i vestiti. Eppure avevano ricevuto da noi tutto il necessario per cambiarsi, chiesi loro dove lo avessero lasciato. Risposero: ‘Mister, è tutto in albergo. Pensavamo fosse un regalo da riportare in Camerun’. Entrarono in pullman con le tute fradice, ma il giorno dopo neanche un colpo di tosse”. 

“Giocammo diverse partite al torneo di Viareggio, perché era un progetto nato con loro. Molti agenti si avvicinarono a me, intuirono il talento. Poi una mattina scomparvero otto calciatori. Letteralmente, ne perdemmo le tracce. Quando tornammo in Camerun scoppiò una grossa polemica. Passò un anno e mezzo: stavo guardando l’Inter di Mancini in Champions League e ho visto Maa Boumsong entrare in campo. All’inizio non ero sicuro ma in effetti era lui. La stessa cosa è successa con tanti altri, tra questi c’era Matute dell’Udinese”.


Cusin in Sud Sudan

Ha avuto altre esperienze in Camerun?

“Con la Nqsa Academy. Era un altro progetto giovani avviato dal secondo imprenditore più ricco del Paese. Il primo era lo Stato stesso. Aveva piantagioni di caucciù e di banane nel Sud, nella zona britannica. Mi portò a vederle, lì avevano metodi anglosassoni. Ricordo anche che mi affidò una casa con un maggiordomo che mi portava il tè. Ogni venerdì mattina, poi, non si lavorava: era un giorno dedicato in tutta l’area alla cura del prato”.

Tornò in Italia anche con loro?

“Certo. Sempre per il torneo di Viareggio. Un giorno un fisioterapista passò da casa e fece salire tre ragazzi prima di portarli in albergo. La sera mi vide e si avvicinò: ‘Mister, c’è stato un problema enorme. Hanno rubato a casa mia’. Chiesi loro cosa avessero preso e rimasero stupefatti dalla mia domanda. Si trattava di cibo, frutta, bevande. Lui in realtà aveva detto loro ‘Fate come se siete a casa vostra’ e i ragazzi dissero che in Camerun sono soliti condividere tutto, gli sembrò un gesto normale. Il fisioterapista non aveva colto da subito la situazione, poi scoppiò a piangere appena realizzò”.

Poi rimase in Africa ad allenare le giovanili del Congo.

“Vincemmo anche la Coppa d’Africa di categoria. Ma ci furono dei contrasti tra il presidente della federazione e il ministro dello sport, che non rilasciava i fondi per pagarmi. Passai otto mesi senza guadagnare un centesimo”.

E tornò in Europa, andò ad allenare il Botev Plovdiv in Bulgaria…

“Il presidente era un personaggio stravagante, si era sposato cinque volte e parlava italiano, veniva spesso a Venezia. Ma la situazione coi tifosi era terribile, ci contestavano. Una volta lanciarono delle lattine di birra durante l’allenamento. Chiesi di allontanarci ed emigrare in un posto sperduto, sulle montagne. Ma gli ultras ci raggiunsero anche lì: arrivarono tre pullman da 150 persone. Parlai col capo ultras, un omone di 120 chili a petto nudo con lo stemma del Botev tatuato sulla fronte. Il capitano fece da tramite, mi spiegò che loro erano delusi per i risultati. Dissi che lo ero anche io, mi diedero un’ultima chance: la partita dopo pareggiammo contro una squadra del posto che faceva l’Europa League. Ci stringemmo la mano”. 


Cusin in Libia.

Come è finito in Libia all’Al-Ittihad Tripoli?

“Una sera mi chiamò un agente, disse che il giorno dopo sarei dovuto andare a Tripoli a parlare con il presidente di una società, senza specificare chi fosse. Arrivai in ambasciata e chiesi di avere il visto perché sarei dovuto partire a mezzogiorno. Mi presero per pazzo: ‘Ci vuole più di un mese’. Qualche minuto dopo arrivò l’ambasciatore che mi portò con sé: era arrivato il visto. Ero in ritardo per il volo, ma lo bloccarono in attesa che arrivassi io. Addirittura mi fecero saltare il check-in e i controlli, arrivai direttamente sulla pista dell’aeroporto. Capii subito che a volermi era un pezzo grosso”.

Chi era questo misterioso presidente?

“Muhammad Gheddafi, primogenito di Mu’ammar. Lo chiamavano ‘il dottor Gheddafi’. Lo conobbi subito dopo aver visto una partita del Tripoli. Fui accompagnato dentro una suite all’interno dello stadio e c’erano circa 200 persone schierate tra militari e servizi segreti. In fondo, lui”. 

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“Beh, oddio, quando ho sentito il nome sì. Mi fece sedere a terra chiedendomi cosa servisse alla squadra. Fui sincero: ‘Devono lavorare fisicamente’. Alla fine mi prese e mi versò anche tre mesi in anticipo”. 

“Diceva fossi l’unico di tutti gli allenatori avuti con cui parlava così spesso. Ogni volta ci vedevamo in posti diversi: poteva essere la cucina di casa di sua zia come un garage nascosto o una casa abbandonata. Un giorno lo chiamò Moratti davanti a me e parlarono dell’Inter. Poi anni dopo, durante la guerra civile, scappò con alcune guardie e la sorella, ma mi ha sempre fatto arrivare i suoi saluti tramite altre persone”. 

cusin gheddafi

Cusin con il dott. Muhammad Gheddafi

Con Muhammad Gheddafi ci vedevamo in posti diversi, nascosti o abbandonati. Anni dopo, durante la guerra civile, scappò. Ma mi ha sempre fatto arrivare i suoi saluti 

Stefano Cusin

“Sembrava di essere in un top club. In casa c’erano 80mila spettatori, agli allenamenti almeno 7-8mila. Quando vincemmo il derby, uscii dallo stadio e un signore mi mise in braccio suo figlio, neanche fosse una benedizione. Pensare che la settimana prima era successo un fatto drammatico…”.

“Andammo a giocare vicino al confine con la Tunisia. Si lottava per non retrocedere. L’arbitro diede 10′ di recupero e loro iniziarono a buttarsi a terra e perdere tempo. Noi segnammo proprio al decimo minuto. I tifosi invasero il campo, aggredirono i giocatori, picchiarono gli arbitri. Ricordo un bambino che faceva il raccattapalle steso per terra insanguinato, lo presi in braccio e corsi verso lo spogliatoio. Ci chiudemmo dentro insieme ai giocatori e bloccammo tutto con tavoli, sedie e mobili. Era una guerriglia urbana”.

Si spostò in Medio Oriente, prima Arabia Saudita poi gli Emirati Arabi. Sempre con Walter Zenga.

“Ero il suo vice. A Riad ricordo un episodio quando lui fu esonerato. La società voleva tenere il resto dello staff, ma io non me la sentivo e chiesi un incontro con il presidente, un principe saudita. Ci incontrammo nella villa per ricevere gli ospiti, che era davanti casa sua. Ogni saudita ne ha una. Era rientrato da un viaggio e c’erano i figli ad aspettarlo fuori: lui li faceva entrare uno per uno, loro gli davano un bacio in fronte e se ne andavano. Si trattava di un modo per dimostrare felicità visto il suo rientro”.

Però in Palestina trovò un mondo diverso.

“Io ero in Cisgiordania, a Hebron, ma giocammo e vincemmo la finale di Supercoppa contro una squadra di Gaza. Per uscire dalla Striscia c’erano controlli serrati, tant’è che il pullman fu bloccato dalle autorità israeliane perché alcuni di loro provenivano da famiglie non ben desiderate. La partita venne rinviata di tre giorni, fu la Fifa a sbloccare tutto e fare in modo che si giocasse”. 

Cusin palestina

Cusin durante i festeggiamenti per la vittoria della Supercoppa di Palestina

“Certo, per la partita d’andata. Era una prigione a cielo aperto. Molto diversa dalla West Bank, dove comunque si faceva sentire il controllo israeliano. Nella Striscia incontrammo però dei miliziani che ci invitarono a lasciare i telefonini in albergo. Ci fecero girare due ore per Gaza, per poi portarci in un bunker segreto”.  

“Abbiamo incontrato Isma’il Haniyeh, ex capo di Hamas ucciso proprio qualche settimana fa. Mangiammo insieme a lui. Voleva vedermi per chiedermi consigli come far crescere il calcio a Gaza, aveva deciso di puntarci perché sapeva fosse un mezzo per impegnare i giovani nello sport”.  

A Gaza ci portarono in un bunker segreto. C’era Isma’il Haniyeh, ex capo di Hamas. Voleva consigli su come far crescere il calcio a Gaza

Stefano Cusin

“Da quel punto di vista, positiva. Mi abbracciò e pronunciò una frase in arabo. Chiesi al traduttore cosa avesse detto. ‘Quando torni in Italia, dì al tuo governo cosa ci stanno facendo'”.

cusin palestina

Cusin davanti al Monte delle Tentazioni, a Gerico (Cisgiordania). Insieme a Damasco, è considerata la città più antica del mondo

Però andò direttamente in Sudafrica.

“Non fu una bella esperienza. Si avvertivano ancora i danni lasciati dall’Apartheid. C’erano troppe tensioni e violenza”.

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“Lì il problema fu arrivare. Qualche giorno prima Trump fece uccidere il generale Qasem Soleimani. I controlli erano serrati, mi chiusero in una sorta di cella in aeroporto per un giorno perché ero occidentale. Volevano sapere da dove venissi e cosa dovessi fare lì”.

Come decisero di farla uscire? 

Un signore ucraino era lì e riuscì ad agganciarsi alla rete Internet. Gli chiesi di mandare un messaggio all’agente e mi misi in contatto con la società, che riuscì a farmi liberare”. 


In Sud Sudan

A proposito di liberazione, nel 2021 è diventato ct del Sud Sudan a 10 anni dall’indipendenza del Paese. Quali erano gli effetti sulla società, sulle persone e sulla squadra? 

“Il Sud è rimasto nudo. Hanno iniziato da poco a sviluppare Giuba, la capitale, che in realtà è un villaggio in espansione senza un piano regolatore. La gente dorme nelle capanne per strada, le strade sono tutte dissestate. I calciatori invece venivano soprattutto da famiglie emigrate in Australia, Uganda, Kenya o altri Paesi. Fare scouting non è stato facile. Tra l’altro c’erano diversi sud sudanesi che giocavano per il Sudan, ma non viceversa. 


Con la federazione del Sud Sudan

Eravate la nazionale più giovane del mondo per un periodo. 

“Mi ero affezionato a quei ragazzi che avevano visto la guerra civile. Portai in nazionale A un ragazzino di 14 anni, era molto povero, i fratellini facevano i mototaxi e la madre non si poteva più muovere. Ha fatto i ritiri con noi in giro per il mondo, poi è arrivato a Dubai a giocare. La famiglia mi ha regalato un paio di scarpe da ginnastica”. 


Con il Presidente del Sud Sudan

Tornare in Africa che effetto le ha fatto? 

“Posti e scene pazzesche. Il presidente della federazione era un ex generale che aveva combattuto la guerra civile. Una volta dovevamo incontrare il ministro insieme alla squadra. Ci vedemmo nella savana, avevamo animali selvatici intorno, come gli struzzi. Io ci ridevo, ma dissi loro: ‘Basta che non ci carica’. Un’altra volta portai la squadra in un orfanotrofio aperto da un italiano. Erano diventati dei simboli per il Paese e giocammo insieme a calcio”.

Cosa hanno di speciale le Comore rispetto a tutto il resto? 

“Sono come le Mauritius o le Seychelles, ma non c’è turismo. E quindi non c’è caos o pericolo. Un Paese fatto di persone pure. Le donne possono girare anche da sole alle quattro del mattino”.

Ora che ha portato quei tre isolotti in Coppa d’Africa, può goderseli da turista.

“Mi sono concesso solo una giornata al mare. Ci sono posti incontaminati, possiamo andare a vedere le tartarughe. Spesso però giro in nave, perché ogni isola ha un suo campionato e cerco ragazzi. Faccio sia allenatore che scout, è ancora oggi la mia passione e non potrei fare altrimenti, anche girando il mondo”.


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