Da Fiat a Satispay, la business angel Fausta Pavesio: «Torino non è città per startup. Bisogna investire di più nei giovani» #finsubito prestito immediato

«Cari torinesi, è venuto il momento di investire sul serio nei giovani e nelle loro startup. Non servono grandi cifre, ma fiducia, coraggio e competenze. La città invece mi sembra imprigionata ancora nella paura e quindi non rischia». La prossima settimana Fausta Pavesio, compie 70 anni, gli ultimi 15 trascorsi da business angel, quella tribù di «angeli» dell’innovazione che investono di tasca propria in imprese innovative. Lei, una delle prime donne laureate in Computing Science in Italia (nel 1977 al Politecnico di Torino), ha lavorato in Fiat Auto, in Olivetti, Ernst&Young, Value Partners. E nell’età in cui molti pensano alla pensione, nel 2009, ha deciso di cambiare rotta, rimettersi in gioco e investire nei giovani. Oggi in portafoglio ha 15 investimenti in startup e ha contribuito a finanziarne altre 40 attraverso il fondo StartupWiseGuys.

Fausta Pavesio, investire nei giovani conviene?
«Chiariamoci: le startup sono asset class interessanti ma rischiosi. Non si diventa milionari, soprattutto non da un giorno all’altro e per chi come me investe nell’early stage, nella fase iniziale dell’impresa con cifre da 25 a 50 mila euro. Tuttavia si possono fare buoni affari sostenendo questi ragazzi e si dà una mano allo sviluppo del territorio. A me è capitato nel 2014 quando si è presentato alla mia porta un ragazzo di Cuneo che non trovava finanziamenti per la sua impresa. Oggi quel progetto di Alberto Dalmasso è diventata Satispay, la prima piattaforma di pagamenti digitali, uno dei pochi unicorni italiani».
 
Torino è stata nomina capitale dell’innovazione 2024 ma poche startup decollano e Satispay ha preso sede altrove.
«Il problema di Torino sono i torinesi. E lo dico da torinese che è andata via dalla città per questa ragione. C’è poca energia e c’è poco entusiasmo, ci si muove per circoli e in ottica di sistema. Qualche tempo fa sono andata al Technical barbecue di Copenaghen dove le startup incontrano gli investitori in modo informale. Alcuni affari si concludono con una stretta di mano o due righe su un foglio di carta. Da noi a volte ci vogliono sei mesi anche per un piccolo finanziamento».

Si dice che nella corsa all’oro i veri affari li fanno chi vende pale e picconi. È così anche per le startup?
«Purtroppo sì. E si vedono i risultati. Non solo a Torino ma in tutta Italia. Il nostro ecosistema presenta alcune storture che andrebbero corrette: capita di sentire ragazzi che devono sborsare mille o più euro per farsi introdurre da manager in un’azienda importante; o investitori che richiedono indietro i finanziamenti se cambia qualcosa nel business. Servirebbe invece un ambiente snello, semplice, senza troppi salamelecchi o persone che approfittano».

Le investe in startup del territorio?
«Attraverso StartupWiseGuys abbiamo finanziato Restworld. Poi seguo con interesse Plino, una startup torinese che si occupa di gestione dei dati per le Pmi. Ho partecipato anche all’Italian Tech Week ma ho visto tanto marketing per Exor e poca innovazione.In questo periodo guardo con maggiore attenzione le società dei paesi nordici, un po’ per interesse e un po’ per ragioni logistiche, visto che le mie due figlie vivono in Svezia».

Qualche giorno fa è diventata virale su Linkedin la sua critica alla piattaforma di investimenti Akka di Giorgio Chiellini che dovrebbe democratizzare i finanziamenti alle startup. Pace fatta?
«Chiellini mi ha cercato. E penso ci parleremo. Non è una questione personale ma di professionalità in un settore cruciale per il futuro del Paese. Non è in questo modo che si aiuta l’ecosistema a crescere. La comunicazione fatta da Akka contiene elementi che sono disinformati e disinformativi quando non proprio sbagliati nei concetti di base».

Come fare allora per «democratizzare» il sistema di investimenti.
«Le startup sono asset class rischiosi, quindi ci vuole molta competenza. A investire una piccola parte del portafoglio dovrebbe essere chi ha grandi o medi patrimoni consapevoli del rischio e anche della posta in gioco. La maggior parte delle società innovative è destinata a fallire. Anzi in Italia falliscono in pochi, ed è un vero problema. Perché abbiamo startup con 3-4 addetti che si trascinano per un tempo infinito quando sarebbe meglio fallire e ricominciare con una nuova idea».

È stata tra i primi investitori di Satispay. Ora conta di capitalizzare?
«Forse venderò qualcosa sul mercato secondario. Ma il mio obiettivo è accompagnarli alla quotazione in Borsa».

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