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Come raggiungere 1.300 miliardi di dollari in finanza climatica #finsubito prestito immediato


di
Sara Gandolfi

Una scala con diversi gradini, dalle erogazioni dei governi alle donazioni volontarie di Cina e Arabia Saudita, fino alla tassa sui voli e il petrolio

La sfida chiave di COP29 è il NCQG, acronimo per New Collective Quantified Goal (Nuovo obiettivo quantificato globale): la cifra che i Paesi più sviluppati dovranno stanziare per permettere a quelli in via di sviluppo di affrontare gli effetti della crisi climatica e ridurre le proprie emissioni.

Gli autori del Terzo rapporto del gruppo di esperti indipendenti sulla finanza climatica, Amar Bhattacharya, Vera Songwe and Nicholas Stern hanno stabilito che l’NCQG dovrebbe impegnare i Paesi sviluppati a fornire almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 e 390 miliardi di dollari all’anno entro il 2035. Cifra sostenuta anche da Marina Silva, ministra dell’Ambiente del Brasile, che il prossimo anno ospiterà COP30 a Belem. Nell’ultima bozza d’accordo, respinta dai Paesi in via di sviluppo, si parla di 300 miliardi di dollari l’anno entro il 2035, tre volte tanto quanto stabilito nel 2019 a Copenhagen.




















































Nella bozza di accordo, si invitano anche “tutti” i Paesi a contribuire per arrivare alla cifra di 1.300 miliardi entro il 2035 in finanza climatica. Gli analisti hanno provato a stabilire come raggiungere questo obiettivo finale auspicato immaginando una scala costruita da diversi gradini, ognuno a rappresentare una diversa fonte di finanziamento. 

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Il primo e più grande gradino alla base è il denaro fornito dai governi dei Paesi sviluppati e storicamente responsabili per sostenere gli sforzi di azione per il clima dei paesi più poveri. Questa è la base dell’attuale obiettivo di 100 miliardi di dollari concordato a Copenaghen e raggiunto per la prima volta nel 2022, due anni dopo la scadenza. Se passa l’ultima bozza di testo dovrebbe ammontare a 300 miliardi di dollari l’anno, “mobilitato”, piuttosto che “fornito”. In altre parole, implica l’ipotesi che l’investimento provenga anche dal settore privato. I Paesi sviluppati, invece, vogliono che sia denaro pubblico costituito da sovvenzioni di facile accesso e che non creino più debito.  Secondo lo studio degli esperti, i governi dovrebbero fornire 300 dollari al 2030 per arrivare a 350 nel 2035.

Il secondo gradino sono le grandi banche di sviluppo, come la Banca Mondiale, che possono erogare 120 miliardi di dollari all’anno entro il 2030 ai Paesi a basso e medio reddito, di cui 42 miliardi di dollari per l’adattamento. Se sommati ai 65 miliardi di dollari previsti dal settore privato, si tratta di una cifra superiore ai 74,7 miliardi di dollari di finanziamenti collettivi per il clima mobilitati nel 2023 per i Paesi a basso e medio reddito. Tuttavia, l’Independent High-Level Expert Group afferma che le banche devono triplicare i loro finanziamenti entro il 2030 per sostenere gli obiettivi climatici: 480 miliardi di dollari sono possibili senza influire sui loro rating. Per molte economie in via di sviluppo, l’onere del rimborso del debito con l’aumento dei tassi di interesse supera di gran lunga qualsiasi reddito derivante dai finanziamenti per il clima.

Il terzo gradino è costituito dai donatori volontari. La definizione di Paese sviluppato, che risale al protocollo di Kyoto del 1994, non include Paesi come la Cina, oggi la seconda economia mondiale, e l’Arabia Saudita, uno stato del G20. A Baku quest’anno, per la prima volta in un contesto COP, la Cina ha descritto il suo sostegno ai Paesi in via di sviluppo come “finanza per il clima” e usando lo stesso linguaggio della Ue – “fornito” e “mobilitato” – ma ha ribadito che è un “contributo volontario”. Diverse economie emergenti, in realtà, stanno già canalizzando la finanza climatica sulla rotta “sud-sud”: oltre alla Cina, la Corea del Sud, l’Arabia Saudita, Singapore, gli Emirati Arabi Uniti, Oman e Qatar.

La quarta fase è rappresentata dalle fonti innovative di finanziamento. Proposte che comprendono: 1) Un prelievo globale sulle negoziazioni in Borsa dello 0,1, che  potrebbe raccogliere fino a 418 miliardi di dollari all’anno. 2) Una tassa sulle spedizioni di 100 dollari per tonnellata di anidride carbonica emessa, che potrebbe raccogliere 80 miliardi di dollari all’anno. 3) 250 miliardi di dollari all’anno potrebbero essere erogati da una proposta di imposta sul patrimonio del G20 dell’economista Gabriel Zucman 4) 2 miliardi di dollari all’anno potrebbero provenire dai mercati volontari del carbonio 5) 80 miliardi di dollari all’anno da una tassa globale sulle emissioni del trasporto marittimo 6) 121 miliardi di dollari all’anno dalla tassa sull’aviazione  di 9 dollari a volo 7) 720 miliardi di dollari entro il 2030 dalla tassa per danni climatici alle major petrolifere. Nessuno di questi meccanismi è stato istituito. La proposta di una tassa sul petrolio non inciderebbe peraltro sulle società che hanno sede in Usa se Trump lascerà l’Accordo di Parigi.

La quinta fase è la finanza privata. Le stime attuali indicano che la mobilitazione del settore privato, se i governi dei Paesi sviluppati creano le giuste condizioni, potrebbe generare fino a 650 miliardi di dollari per l’azione per il clima entro il 2035. 

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23 novembre 2024



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