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Quando il turismo è una fortuna e una condanna #finsubito prestito immediato


Verso fine estate girava in un social l’immagine creata con l’IA di un vallone d’alta montagna invaso da migliaia di escursionisti con zaini e abiti estivi, in parte in costume da bagno. Qualcuno la ripostò, colpito da quel melange di profezia e catastrofe ambientale. Eppure qualcosa del genere si verifica ogni anno, ad esempio, in Trentino: proprio di recente un concerto di Roberto Vecchioni in Val Duron, a 1.850 metri di quota, ha attirato ottomila persone.

Si tratta d’altra parte, per lo meno, di eventi di breve durata, mentre l’overtourism di cui tanto si parla negli ultimi tempi è qualcosa che impatta continuativamente e sul lungo periodo, in montagna come altrove. E si sa che il suo impennarsi, orientato a mete sempre più condivise in tutto il mondo, è anche una conseguenza dell’immobilità forzata che è toccata all’umanità fra il 2020 e il 2021. È proprio in quel periodo che la scrittrice sudtirolese Selma Mahlknecht, confinata nel suo domicilio nel Canton Grigioni, ha lavorato a un saggio sul turismo, alpino in particolare, e l’ha fatto con il piglio ironico e fenomenologico di chi, in tempi più normali, si dedica per lo più alla drammaturgia e al romanzo.

IN QUESTO All intrusive. La montagna tra nostalgie e disillusioni turistiche (Edizioni Alphabeta Verlag, traduzione di Giuliano Geri, pp. 224, euro 18,00) lo scopo di Mahlknecht è «cingere d’assedio» il turismo e le sue contraddizioni, giacché è innegabile che il fenomeno presenti pro e contro. Muovendo dal mito della montagna, dalla sua associazione con il sacro e la ricerca di sé stessi, sono anzitutto chiamati in causa Petrarca, che per alcuni con la sua salita al Monte Ventoso avrebbe inventato l’alpinismo, e il Dante della Commedia, che ci ricorda come per il cristiano non sia dato di trovar felicità nelle altezze senza passare per pene e tormenti. Noi però oggi abbiamo ormai a che fare con altro, con una «montagna arredata», travestita di un’autenticità posticcia, ricreata ad hoc per l’ospite, dove dell’idea romantica del riavvicinamento alla natura incontaminata, il più isolati possibile, è rimasto ben poco. Certo, magari ci resta l’imperativo «morale» del viaggio come esperienza formativa – chi ha la possibilità di viaggiare deve volerlo fare –, ma il turista ormai è visto come un agente ambiguo: porta soldi, ma è potenzialmente infestante.

Turisti sono sempre gli altri, ci diciamo allora, salvo poi disporci ad ammettere che anche noi, quando andiamo in vacanza, ci avvaliamo del nostro «diritto» a un intervallo di improduttività, nel quale prendere da un luogo molto più di quanto gli diamo.

Tutto questo, beninteso, entro una scala di disuguaglianze: giacché chi oggi avrebbe più bisogno di una vacanza non se la può permettere, mentre sull’altra lama della forbice cresce il «turismo di qualità», ossia un turismo più caro per meno turisti, ma più benestanti, il che in fin dei conti non fa che reintrodurre il carattere elitario del turismo degli albori. Era un’epoca in cui, per converso, non mancarono risvolti positivi: Mahlknecht ricorda come sua nonna, mettendosi a offrire camere ai visitatori, poté in qualche misura emanciparsi, anche se in quegli anni i tedeschi che si riversavano in Alto Adige erano più che altro convinti di sostenere, anche culturalmente, la povera terra tirolese ceduta all’Italia (salvo poi, pochi anni dopo, esaltarsi per i menù mediterranei).

DA ALLORA TUTTAVIA molto è cambiato e, dove lo ha fatto in peggio, la responsabilità, più che del turista, e chi di lì ce lo ha attirato, guidato dalla propria avidità. Con il risultato che oggi, nei luoghi più battuti e adulterati, sempre più spesso gli autoctoni finiscono per sentirsi cittadini di serie B, impossibilitati anche solo a trovare una casa in affitto. Insomma, non se ne esce: prendere posizione è complicato.

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La proposta conclusiva dell’autrice è chiara: il solo turismo non dannoso sarebbe quello «assente», ma viaggiare rimane un’occasione preziosa. Se vogliamo evitare l’ipocrisia e la vergogna di chi in fondo non può farne a meno, invece di cercare noi stessi in montagna dovremmo «spostare le montagne in noi»: disporci cioè a un viaggiare diverso, lasciarci alle spalle ciò che l’industria del turboturismo ci ha fatti diventare e vivere i luoghi su tempi più lunghi, facendoci parte attiva delle comunità che abitiamo. Forse suona un po’ utopistico, ma resta il messaggio di fondo: la posta in gioco, per l’uomo e per l’ambiente, è troppo alta per lasciare le cose come stanno.



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