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ASILI NIDO, IL SUD PENALIZZATO DI NUOVO SOLO AL 15% SARÀ GARANTITO UN DIRITTO #finsubito prestito immediato


di MASSIMO MASTRUZZOEra il 2001 quando la Commissione Bicamerale sul federalismo fiscale, con un trucco contabile, approvava tabelle che assegnavano zero agli asili nido nei Comuni del Mezzogiorno.

Invece di calcolare le esigenze della popolazione, i tecnici della Sose (società del ministero del Tesoro) e quelli della Copaff (Commissione paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale), fecero valere il principio della spesa storica e non quello dei fabbisogni standard, sottraendo di fatto 700 milioni di euro ogni anno ai Municipi del Sud, per distribuirli a quelli del Centro-Nord.

Un trucco contabile che permetteva di assegnare più servizi a chi in passato godeva già di maggiori risorse dallo Stato; viceversa assegnava meno a chi già meno aveva, dal momento che non si era calcolato il numero dei bambini residenti, ma il numero di asili nido, che si dà il caso in città come Catanzaro, Giugliano, Pozzuoli, Casoria, Portici, San Giorgio a Cremano ed Ercolano, non erano sono mai esistiti.

Negli ultimi 23 anni (e tralascio la recente vicenda dei vaccini per la cura della bronchiolite, prima negati e poi gentilmente concessi anche ai bambini di Puglia, Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e Sicilia) i presidenti del consiglio hanno perso il pelo ma non il vizio di arredare futilmente le corde vocali con frasi piene di cifre e di investimenti per il Sud: Prodi, 2007 “Piano straordinario per il Sud…”; Berlusconi, 2010″Piano straordinario per il Sud…”; Renzi, 2015″Piano straordinario per il Sud…”.

Il Sud è sempre stato oggetto e mai soggetto delle politiche nazionali, altra spiegazione non la trovo rispetto allo status quo e a quanto invece previsto dalle politiche di coesione economica, sociale e territoriale che avrebbero dovuto ridurre le disparità, oltre che promuovere in generale uno sviluppo territoriale più equilibrato e sostenibile.

Non a caso, giusto per non smentire oltre un secolo di politiche che hanno di fatto contribuito puntualmente ad allargare la forbice della disomogeneità territoriale, il governo Meloni ha appena preso una decisione che segna uno spartiacque nella gestione delle politiche sociali per la prima infanzia scegliendo di abbassare i livelli essenziali di prestazione (Lep) per l’accesso agli asili nido.

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Fino a oggi l’obiettivo fissato dall’Unione Europea e dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) era chiaro: garantire un posto in asilo nido ad almeno il 33% dei bambini sotto i tre anni, il nuovo Piano Strutturale di Bilancio di medio termine 2025-2029, il Governo ha stabilito che a livello regionale sarà sufficiente raggiungere una soglia del 15% dei posti disponibili per i bambini sotto i tre anni. La discrepanza è evidente: mentre a livello nazionale rimane valido l’obiettivo del 33%, nelle regioni del Sud, dove il gap di offerta è già drammaticamente evidente, il governo riduce ulteriormente le aspettative. Il diritto di accesso ai servizi per l’infanzia, anziché essere una conquista per tutti, diventa una questione geografica. Chi nasce al Sud, quindi, dovrà accontentarsi di molto meno. In barba all’articolo 3 della costituzione, si tratta di un vero e proprio abbandono di un principio di uguaglianza sociale che, onde evitare inutili illusioni, nel Mezzogiorno si inizia a far praticare fin dalla tenera età. 

Queste sottrazioni di diritti costituzionali fatte passare, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, come sfumature ininfluenti, rappresentano in realtà il vergognoso apostrofo grigio tra il Nord e il Sud di questo Paese. Gli zero asili nido al Sud, il mancato tempo pieno nelle scuole del Sud, il diritto alla mobilità negato da infrastrutture e trasporti non adeguati agli standard nazionale ed europei, l’ininterrotta emigrazione, i Lep, questa benedetta autonomia che rappresenta il capriccio delle regioni più ricche, seppur si voglia far passare l’idea di un’opportunità per il Sud, dovrebbero rappresentare il nucleo centrale del dibattito politico con l’obiettivo del bene comune nazionale ed invece rimangono sotto il tappeto dell’ipocrisia che ancora oggi si chiama Questione Meridionale. 

Viceversa osserviamo un modello di sviluppo nazionale che oggi vede la Lombardia con 10 milioni di abitanti e con Milano che entro 2030 rischia di essere tra le città più inquinate d’Europa e al contempo la Calabria a rischio desertificazione umana e industriale. 

L’Italia, dove all’interno dei suoi confini nazionali persistono realtà di disomogeneità territoriali uniche nella Ue, sembra ormai il plastico di quel accentramento di ricchezza che rappresenta la deformazione morale del capitalismo mondiale. 

Tutto questo non è più politicamente concepibile, il resto sono chiacchiere e tabaccheri di ligno. (mm)

[Massimo Mastruzzo è del direttivo nazionale Met – Movimento Equità Territoriale]



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