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Di Fiorenza Sarzanini
La decisione del giudice di Roma che nega il rimpatrio dei cittadini stranieri trasferiti in Albania era ampiamente prevedibile. Nei giorni scorsi altri giudici si sono espressi in identico modo decidendo di non convalidare il trattenimento di cittadini stranieri che, dopo lo sbarco, erano stati trasferiti in centri di permanenza che si trovano in Italia. Tutte le ordinanze emesse nelle ultime due settimane si basano su una sentenza della Corte di giustizia europea che il 4 ottobre scorso ha ridefinito il criterio di «Paese sicuro» ponendo dei vincoli stretti alla possibilità di rimpatriare i migranti negli Stati di provenienza. Il caso preso in esame a Lussemburgo riguardava un cittadino moldavo giunto nella Repubblica Ceca e nei confronti del quale era stata attivata la procedura di espulsione. Ma, come sempre accade per le pronunce della Corte di giustizia, il principio deve essere esteso e quindi applicato da tutti gli Stati membri.
Basterebbe questo a rendere poco comprensibile la bagarre politica che si è scatenata ieri, pochi minuti dopo il deposito dell’ordinanza sui migranti portati in Albania. Il centrodestra si è subito scagliato contro i magistrati definendo politica una decisione fondata su elementi giuridici.
L’opposizione si è affrettata a rivendicare di aver avuto ragione quando aveva attaccato l’accordo siglato con Tirana perdendo di vista il fatto che la questione è generale. Entrambi gli schieramenti hanno così dimostrato di non aver centrato il vero nodo del problema e le conseguenze che può avere in Italia, ma più in generale in Europa sulla gestione dei flussi migratori e in particolare sull’impossibilità di rimpatriare gli stranieri che non hanno diritto a rimanere.
La linea scelta dal governo Meloni con l’apertura dei centri in Albania ha un obiettivo esclusivamente deterrente, anche perché 3.000 posti non possono rappresentare la soluzione al sovraffollamento delle strutture. Il messaggio è esplicito: non partite alla volta dell’italia, anche se siete intenzionati ad andare in altri Stati europei, perché vi impediremo in ogni modo di toccare il nostro suolo. La realizzazione di questo accordo al momento si è però rivelata estremamente costosa dal punto di vista economico e soprattutto da quello pratico, ottenendo così l’effetto contrario a quello prefissato. È vero che la presidente della commissione Ursula von der Leyen ha parlato di «soluzioni innovative per affrontare l’emergenza» impegnandosi a sperimentare il «modello Albania» e altri leader hanno espresso giudizi positivi, ma il consenso non è unanime, e comunque bisogna tenere conto dei vincoli imposti dalle regole e convenzioni della stessa Unione. La strada da percorrere per un progetto comune appare ancora lunga.
Ecco perché è importante mantenere una linea di fermezza senza abbandonarsi a reazioni scomposte. La storia di questo Paese è stata segnata negli ultimi decenni da uno scontro tra politica e magistratura che ha avuto conseguenze talvolta anche drammatiche. Ogni governo, se ne ha le capacità e i numeri in Parlamento, ha il diritto e il dovere di portare avanti il proprio programma e in materia di giustizia l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni lo sta facendo in maniera rapida aiutato anche da alcuni parlamentari che — almeno formalmente — si trovano dalla parte opposta della barricata. Può farlo senza alzare i toni, ma anche considerando poco opportuna la scelta di alcuni ministri di organizzare un sit in a Palermo dove era in programma un’udienza del processo contro Matteo Salvini per il caso Open Arms.
Lunedì si riunirà il Consiglio dei ministri, all’ordine del giorno c’è il varo di un provvedimento che consenta al governo di superare l’impasse creato dalla sentenza della Corte europea. Gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e del Viminale sono al lavoro, l’ipotesi è quella di rendere appellabili le ordinanze dei giudici in modo da bloccarne l’effetto. Una strada giudiziaria, dunque, l’unica in questo momento percorribile se non si vuole acuire un conflitto tra poteri dello Stato che ha già raggiunto livelli altissimi. Nei momenti delicati — e quello che l’italia sta vivendo lo è per le tensioni interne ma soprattutto per la crisi internazionale — diventa indispensabile muoversi con cautela e responsabilità. Consapevoli che le fibrillazioni continue, o peggio ancora gli scontri istituzionali, possono provocare soltanto danni ulteriori.
Fonte: Corriere
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