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Il grande regista italoamericano è a Roma per presentare l’ultimo film, «Megalopolis»: a lui le chiavi di Cinecittà, dove una via gli è stata intitolata
«Vorrei fare ancora due film: uno semplice e piccolo, per divertimento, che vorrei girare in Italia. L’altro gigantesco». Francis Ford Coppola è a Roma per presentare il kolossal Megalopolis, l’opera più fuori norma della sua lunga carriera, passata in concorso a Cannes, in sala da domani. Nonché film di preapertura della Festa del Cinema di Roma e di Alice nella città. Un tour de force notevole per il regista de Il padrino e Apocalypse now, 85 anni, sei Oscar, due Palme d’oro, iniziato a Domenica in, dove ha persino ballato con Mara Venier. E che prevede una masterclass, un incontro aperto al pubblico con Alice Rohrwacher, dopo il passaggio, ieri, a Cinecittà, per la cerimonia di consegna delle chiavi e dell’intitolazione di una strada: Viale Francis Ford Coppola.
Non un viale del tramonto. Anche se si schermisce («Sono un nonno, vicino alla morte») a Coppola continua a interessare più il futuro del passato. A cominciare dal suo. «Non mi considero un pezzo da 90, non mi piace essere chiamato maestro o mister Coppola. Sono lo zio Ciccio. Siamo tutti parenti, membri della grande famiglia dell’homo sapiens. Il miglior premio è quando qualche regista mi dice: “Ho fatto questo mestiere dopo aver visto un tuo film”».
Sono stati i maestri italiani a far venire voglia a lui. «Da ragazzo a New York avrei voluto venire a Roma al Centro sperimentale. Sognavo questa chiave 50 anni fa, ora la passo idealmente ai giovani cineasti. Come capitò a noi, si muovono sulle spalle dei giganti. Ma tra loro ci sono i nuovi giganti».
Gli imperi crollano quando la gente smette di crederci, è il messaggio di Megalopolis, la sua personalissima versione di epopea dell’Antica Roma trasferita nella New York di un futuro molto vicino. «Ma dopo la caduta c’è una sempre una ripartenza. È il principio della vita: morte e rinascita». Oggi, «due grandi e belle istituzioni stanno morendo: il giornalismo e il sistema degli studios». Uno, dice, troppo preoccupato dei clic (ogni riferimento alla sua causa per diffamazione a Variety dopo l’articolo sulle presunte accuse di molestie sul set di Megalopolis per cui ha chiesto 15 milioni di dollari di danni, non sembra casuale). L’altro, ossessionato dalla caccia alla formula perfetta, «come quella della Coca Cola», per fare soldi. «Arte o business, è il dilemma del cinema». La sua risposta è ovvia. Per non sottostare alle regole del business si è autofinanziato Megalopolis. «L’ho fatto a modo io. Come Apocalypse now: non piacque a tutti ma da 40 anni continua a essere visto, spero accadrà anche per Megalopolis».
Ha fiducia, insiste, sul futuro del cinema. E anche del giornalismo. «Dietro l’angolo ci sono nuove modalità che ancora non conosciamo». Meno su quello degli Usa, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali. «La repubblica americana è a rischio. Pico della Mirandola diceva: l’essere umano è un genio in grado di risolvere qualsiasi problema. Dovremmo ricordarlo». Parla dell’Italia. «È una perfetta metafora del mondo. Un Paese fantastico: ha i migliori artisti, medici, scienziati. È in grado di realizzare al meglio qualsiasi cosa. Tranne un governo che funzioni».
In quanto a lui, l’orgoglio arriva più che dalla filmografia dalla famiglia. «La mia opera migliore? I miei figli Sofia e Roman; mia nipote Gia (anche lei regista); mio nipote Nicolas Cage. La nostra ricchezza sta nella voglia di mettere l’arte e il gioco al centro della vita». Molto privato anche il dolore più grande. «Ovviamente la perdita di mio figlio», (Giancarlo, ndr). «Ma mi fa soffrire anche l’idea che non stiamo lasciando ai giovani il cinema che avremmo voluto».
14 ottobre 2024 ( modifica il 14 ottobre 2024 | 23:18)
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