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«Il mio cappello è sul ring». Così le primarie hanno cambiato le presidenziali Usa #adessonews

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My hat is in the ring. The fight is on, and I am stripped to the buff. Theodore Roosevelt nel 1912 annunciò di entrare nella campagna presidenziale per il Partito repubblicano per palesare il suo scontento nei confronti del presidente in carica William Howard Taft.

Era la prima volta che i Repubblicani tenevano le primarie e Roosevelt vinse in nove dei dodici stati in cui si svolsero. Tuttavia, il congresso del partito selezionò Taft in virtù del voto dei delegati indicati nei rimanenti stati in cui le primarie non si erano tenute.

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Il partito si divise e Roosevelt corse da indipendente, con il suo Bull Mosse Party. Ottenne il 27 per cento giungendo secondo dietro Woodrow Wilson. Mezzo secolo dopo, nella stessa città dell’Illinois si consumo la grande frattura all’interno dell’altro partito, quello democratico.

Chicago 1968

Le primarie del 1968 consegnarono una divisione politica, generazionale e culturale tra le fila dell’Asinello che non riuscì a designare pacificamente lo sfidante di Richard Nixon.

Dopo la rinuncia di Lyndon Johnson e gli strascichi della guerra in Vietnam i Democratici puntarono su Robert Kennedy che venne però assassinato dopo le primarie in California, quando ormai sembrava chiaro che avrebbe potuto ottenere la nomination.

Che invece andò a Hubert Humphrey vicepresidente in carica contro il liberal George McGovern e le proteste anti guerra dilagarono in città. La gestione dell’ordine pubblico fu particolarmente cruenta e il protagonismo del sindaco Richard Daley guidò la polizia a reprimere il pacifismo degli Yippies e dell’ala di sinistra del partito sin dentro l’International Amphitheatre dove si teneva il Congresso.

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L’azione di Daley non fu solo il rifiuto delle istanze giovanili, del movimento che nacque a Berkley e propagò in Europa, ma era anche il simbolo della vecchia classe dirigente democratica ostica nei confronti del nuovo e che riteneva intoccabili e immodificabili le strutture del partito e i suoi metodi di selezione.

Le famigerate machines politics che erano in grado di consentire ai boss del partito di rimanere in carica, spesso grazie all’uso spregiudicato e talvolta illegale delle possibilità di accesso alla gestione dei finanziamenti pubblichi derivante dal loro esteso consenso elettorale. Il quale però andava coltivato e quindi induceva, e in qualche misura costringeva, gli esponenti di partito a rapportarsi con gli elettori/cittadini, i quali erano i più assidue e fedeli partecipanti della vita partitica.

Contro queste derive clientelari le primarie rappresentarono il tentativo di scardinare il potere delle machines e di ampliare la platea di coloro che decedevano le candidature, spesso chiuse dentro “fumose stanze”.

La spinta sociale perché anche il partito democratico rivedesse la gestione ossificata nelle mani dei boss, delle clientele e delle correnti capaci di determinare risultati, candidature, rielezioni e, appunto, nomination presidenziali generò l’effetto della Commissione McGovern-Fraser istituita nello stesso giorno degli scontri e della nomination (il 28 agosto) al fine di riformare la struttura del partito e la selezione dei delegati.

I boss alle primarie aperte. O quasi

I lavori terminarono nel 1971 allorché McGovern si dimise per candidarsi alla presidenza, vincendo la nomination decisa nella convention democratica secondo le nuove regole, salvo perdere le presidenziali del 1972 contro Richard Nixon.

Otto proposte per tutelare due principi cardine: la partecipazione; la giusta rappresentanza delle preferenze degli elettori, aprendo il processo di selezione e soprattutto rispettando le preferenze espresse nella scelta dei candidati presidenziali.

Dopo il 1968 si aprì una fase di espansione per le primarie che vennero adottate da un numero di stati superiore a trenta, diventando lo strumento generalizzato sia per i Democratici sia per i Repubblicani.

Una fase nuova rispetto alla ristretta cerchia di party bosses che incideva sulla scelta dei candidati, con la macchina partitica quale fonte di degenerazione della politica e della democrazia americana come indicato da Moisej Ostrogorskij.

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E tali boss non presero bene la scelta delle primarie. La Florida (1901) fu il primo stato a offrire la possibilità di un’elezione primaria per la scelta dei delegati alla convention nazionale, cui seguirono il Wisconsin (1905), la Pennsylvania (1906) e l’Oregon (1910).

Dalle convention del 1912 erano una dozzina gli stati ad aver adottato una qualche forma di primarie (sia per la selezione dei delegati, sia per permettere agli elettori di esprimere preferenze tra i candidati, o entrambe) e quasi venti fino al 1916.

Tante primarie, quali primarie?

Sono almeno quattro i momenti principali che consentono di ricostruire la storia delle primarie negli Stati Uniti.

Una prima fase – tra il 1901 e il 1916 – nella quale quasi la metà degli stati utilizza le primarie, ma l’entusiasmo per lo strumento viene fiaccato dalla prima guerra mondiale.

Una seconda fase – tra il 1917 e il 1945 – nella quale circa un terzo degli stati che aveva adottato le primarie, nei fatti, progressivamente, ci rinuncia e le abroga. Di conseguenza, i candidati non svolgevano campagna elettorale negli stati in cui le primarie continuavano a svolgersi poiché sapevano che la loro eventuale nomination sarebbe stata determinata dai delegati unpledged, ossia non vincolati. Poi vi è stata una terza fase, dal 1948 al 1968, nella quale molti stati legiferarono adottando le primarie, facendo sì che queste divenissero una grande opportunità per potenziali sfidanti, come ad esempio nel 1952 Dwight Eisenhower, sebbene le nomination fossero ancora quasi totalmente appannaggio dei congressi di partito.

Infine, l’ultima, l’attuale quarta fase, che inizia proprio dal 1968 e arriva ai giorni nostri. Nel corso degli anni la quantità di primarie è aumentata, e al contempo è cresciuto anche il peso dei delegati, ossia l’incidenza che le preferenze degli elettori hanno avuto sulla scelta del candidato presidenziale. In particolare, tra il 1912 e il 2020, il numero di primarie convocate dai partiti è quasi quadruplicato, mentre la percentuale di delegati è arrivata oltre l’80 per cento.

Le presidential primaries sono una vera e propria maratona elettorale che inizia formalmente in gennaio, ma in realtà scatta con un anticipo di due anni, tanto da alimentare la “campagna elettorale permanente” cui contribuisce anche il ciclo delle elezioni di mid-term.

Esistono diversi tipi di primarie che possono variare per partito e stato di adozione. In sintesi, in base al sistema elettorale, abbiamo: delegate selection primary, le più longeve e servono a selezionare i delegati alla convenzione del partito; binding presidential preference primary, adottata dal Partito repubblicano, assegna tutti i delegati al candidato vincente plurality (winner-take-all); proportional representation, è il tipo di primaria adottata dai Democratici in circa trenta stati, in cui l’assegnazione dei delegati alla convention avviene su basi proporzionali.

Per quanto attiene agli elettori ammessi alla partecipazione, abbiamo: primaria chiusa, votano solo i cittadini che siano registrati quali “membri”; primaria semi-chiusa, elettori non affiliati/indipendenti possono votare sia scegliendo il loro partito nell’urna, sia registrandosi nel giorno dell’elezione; primaria aperta, gli elettori registrati possono partecipare al voto in qualsiasi primaria a prescindere dalla loro affiliazione partitica; primaria blanket, l’elettore può partecipare al voto per entrambi i partiti, ma può esprimere la preferenza al candidato di uno di essi; primaria non partitica: la competizione non è limitata a candidati di un solo partito, in cui i primi due classificati accedono all’elezione generale.

Dollari, conflitto e democrazia

I Democratici utilizzano prevalentemente primarie con sistema elettorale proporzionale (sebben con soglia di sbarramento alta: 15 per cento), mentre i Repubblicani ricorrono maggiormente al maggioritario secco.

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Nella storia dei partiti le primarie sono state importanti. Per i repubblicani ricordiamo la campagna vincente di Ronald Reagan nel 1980 e di Donald Trump nel 2016, il quale vinse contro l’establishment del partito.

La vittoria per la candidatura fu in qualche misura ancora più storica della successiva vittoria per la Casa Bianca stante l’ostilità nemmeno tanto celata dei boss dell’Elefante.

Per i Democratici le primarie selezionarono George McGovern che perse pesantemente contro Nixon nel 1972; ma furono altrettanto importanti per l’emergere di figure quali Bill Clinton nel 1992 e di Barack Obama nel 2008.

La competizione per le primarie aumenta la tensione intra-partitica che se protratta per lungo tempo può rappresentare una frattura difficilmente sanabile. Si stima che circa il 10 per cento degli elettori di Bernie Sanders decise di non sostenere Hillary Clinton nel 2016, mentre la divisione tra Barack Obama e Hillary Clinton si risolse con la nomina di quest’ultima a segretario di Stato.

Infine, se le primarie sono certamente uno strumento democratico che apre le porte dell’organizzazione alla partecipazione di un numero maggiore di cittadini/elettori, ma negli ultimi anni hanno generato anche una crescita esponenziale delle spese pertanto limitando di fatto le possibilità di competizione ai candidati più dotati finanziariamente.

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