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La Cassazione si pronuncia sull’aggravante di cui all’art. 316-ter, co. 1, terzo periodo, c.p. ritenendola ad effetto comune: inapplicabili le misure cautelari detentive
 

Per la prima volta la Corte di Cassazione si pronuncia sulla natura dell’aggravante di cui al terzo periodo del primo comma dell’art. 316-ter c.p., ritenendola ad effetto comune. Anche nel caso in cui l’indebita percezione di erogazioni pubbliche sia aggravata, non è possibile applicare alcuna misura cautelare personale detentiva (nel caso di specie gli arresti domiciliari) poiché le aggravanti previste nella disposizione, essendo ad effetto comune, devono essere escluse dal computo del massimo edittale effettuato ai sensi dell’art. 278 c.p.p.

La Corte coglie l’occasione per ribadire che in caso di indebita percezione dei contributi a fondo perduto erogati per la pandemia, l’unica persona offesa è lo Stato italiano e non anche l’U.E.

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Introduzione al giudizio

Il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del riesame, aveva rigettato la richiesta di riesame proposta dal ricorrente avverso l’ordinanza del GIP di Avellino con il quale egli era stato sottoposto alla misura degli arresti domiciliari.

Il ricorrente, sottoposto ad indagini per aver percepito i contributi a sostegno delle imprese previsti dal Decreto Sostegni e dal Decreto Sostegni-bis (rispettivamente D.L. 41/2021 e D.L. 73/2021), era iscritto nel registro ex art. 335 c.p.p. per il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), ma il Tribunale di Napoli aveva riqualificato il reato in quello di indebita percezione di erogazioni pubbliche di cui all’art. 316-ter c.p.

Avverso l’ordinanza proponevano ricorso per Cassazione sia il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Avellino che il difensore dell’indagato.

In particolare, il PM deduceva l’erronea applicazione della legge penale in relazione alla riqualificazione della truffa aggravata in indebita percezione di erogazioni pubbliche.

Secondo il PM, infatti, la condotta dell’indagato sarebbe stata posta in essere attraverso la commissione di quegli artifizi o raggiri necessari all’integrazione della truffa: l’indagato avrebbe indotto in errore l’Agenzia delle Entrate prospettando artificiosamente un volume di ricavi nella dichiarazione IRES e IVA della società, in modo tale da soddisfare i requisiti per richiedere l’istanza di erogazione e superare i controlli previsti dalla legge. Sulla base della disciplina dei due decreti, inoltre, la circostanza che il contributo sarebbe erogato sulla base di una autocertificazione non eliderebbe il controllo dell’Agenzia delle Entrate con riferimento alla congruità dei dati inseriti.

Il difensore, invece, affidava la propria doglianza a due motivi di ricorso.

Con il primo motivo si rilevava che la pena prevista dal codice penale per il delitto di indebita percezione di erogazioni pubbliche non consentiva l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari. Il Tribunale del Riesame di Napoli avrebbe commesso un errore nel calcolo della pena massima da cui discende l’applicazione della misura custodiale: la corte partenopea, infatti, avrebbe individuato come pena massima quella indicata dal terzo periodo del primo comma dell’art. 316-ter c.p. (quattro anni) che, invece, secondo il difensore del ricorrente, costituisce un’aggravante ad effetto comune dato che prevede un aumento inferiore ad un terzo.

Il difensore affidava al secondo motivo di ricorso la doglianza inerente all’insussistenza dell’aggravante dell’offesa agli interessi finanziari dell’U.E.: il Tribunale, infatti, ignorando l’art. 3 della direttiva 2017/1371/UE, aveva qualificato i contributi di cui ai Decreti Sostegni e Sostegni-bis come misure che incidono o minacciano di incidere negativamente sul patrimonio dell’U.E., ai sensi del considerando (1) della direttiva.

Per tali ragioni il difensore chiedeva la revoca della misura cautelare.

 

Il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche. Cenni

Prima di affrontare la decisione della Suprema Corte è opportuno fornire brevi cenni sul reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche.

In esecuzione degli obblighi scaturenti dalla Convenzione PIF del 26 luglio 1995, con la L. 300/2000 è stato inserito nel codice penale – tra i delitti contro la Pubblica Amministrazione – il delitto in esame, con la rubrica di “indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato”. Successivamente, con la L. 25/2022, il reato è stato oggetto di un ampliamento dell’alveo della tipicità, e oggi comprende espressamente anche le “sovvenzioni” indebitamente conseguite (queste erano state già ricondotte tra le erogazioni rilevanti dalla giurisprudenza; v. sul punto Cass. pen., S.U., 19 aprile 2007, n. 16568).

Il bene giuridico tutelato è il buon andamento e l’imparzialità della PA, sia interna che comunitaria, e più precisamente la libertà nel procedimento di formazione della volontà della PA in relazione alla corretta allocazione delle risorse finanziarie verso quei soggetti che abbiano richiesto ed ottenuto un finanziamento pubblico.

Sebbene sia inserito tra i delitti dei pubblici ufficiali contro la PA, che sono prevalentemente dei reati propri, si tratta di un reato comune: la norma, infatti, indica espressamente che il reato può essere commesso da “chiunque”. I soggetti passivi, invece, sono indicati nella disposizione e costituiscono tutti quegli enti che erogano i finanziamenti, cioè lo Stato, gli enti pubblici e l’Unione Europea.

Con riferimento al fatto tipico, la condotta può estrinsecarsi sia in una forma commissiva che in una forma omissiva: la fattispecie, infatti, si integra «mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante l’omissione di informazioni dovute».

In relazione all’oggetto materiale della condotta, cioè dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, è opportuno evidenziare che deve trattarsi di documenti che abbiano influito ed alterato la decisione, diversamente ponderata, dell’ente erogatore: tale assunto è evidentemente imposto dal principio di offensività, poiché altrimenti si ricadrebbe nelle ipotesi di falso innocuo o inutile.

Un elemento del fatto tipico che non viene indicato nell’articolo ma che deve necessariamente sussistere è l’induzione in errore. In particolare, affinché il reato di cui all’art. 316-ter c.p. possa dirsi integrato, il soggetto dell’ente pubblico erogante deve essere tratto in inganno – senza artifizi o raggiri – dalla falsa o incompleta documentazione.

Il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche, infatti, differisce da quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni (640-bis c.p.) proprio per la mancanza, nel primo reato, dell’elemento dell’induzione in errore mediante artifizi e raggiri.

Pertanto, integra il reato di indebita percezione e non quello di truffa la condotta di mero mendacio, come confermato da Cass. pen., Sez. VI, 22 marzo 2022, n. 20932, e Sez. II, 24 giugno 2022, n. 30007.

Con riferimento all’elemento soggettivo, l’art. 316-ter c.p. è un reato punito a titolo di dolo generico, consistente nella rappresentazione e volontà, da un lato della falsità o non veridicità delle dichiarazioni, dei documenti o delle attestazioni, ovvero della mancanza delle informazioni dovute, dall’altro del carattere indebito dell’erogazione.

Sono previste due aggravanti ai periodi secondo e terzo del primo comma, mentre il secondo comma prevede un’ipotesi di mero illecito amministrativo qualora la somma indebitamente percepita sia pari o inferiore a € 3.999,96. In particolare, l’aggravante di cui al terzo periodo, rilevante ai fini della presente trattazione, così statuisce: «la pena è della reclusione da sei mesi a quattro anni se il fatto offende gli interessi finanziari dell’Unione europea e il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000».

È infine opportuno rilevare che il delitto di cui all’art. 316-ter c.p. è previsto tra i reati-presupposto di cui all’art. 24 del D.Lgs. 231/2001. Qualora, quindi, venisse commesso tale reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente, è possibile che sussista altresì la responsabilità amministrativa di quest’ultimo. L’art. 24 punisce tale condotta con una sanzione amministrativa pecuniaria fino a 500 quote, alla quale possono essere aggiunte anche le sanzioni interdittive ex art. 9 co. 2 lett. c), d) ed e) del D.Lgs. 231/2001 (il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi).

 

Lo sviluppo della decisione

Secondo la Corte di Cassazione il ricorso del PM era inammissibile, mentre il ricorso della persona destinataria della misura cautelare doveva essere accolto in quanto fondato.

Sia pertanto consentito procedere con ordine, segnalando altresì che la sentenza in commento erroneamente individua l’aggravante dell’offesa agli interessi finanziari dell’U.E. – prevista al terzo periodo – come quella del “secondo” periodo dell’art. 316-ter co. 1 c.p.

 

3.1. Il ricorso del Pubblico Ministero

Il PM, contestando la riqualificazione operata dal Tribunale di Napoli, deduceva che la condotta avrebbe dovuto essere ricondotta alla fattispecie di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

Secondo la Suprema Corte, tuttavia, la qualificazione operata dal Tribunale del Riesame era corretta in quanto, sulla base di quanto emerso, non erano stati posti in essere artifizi o raggiri da parte dell’indagato.

I Decreti Sostegni e Sostegni-bis richiamano l’art. 25 co. 9-14 del D.L. 34/2020 per quanto concerne le modalità di erogazione del contributo, al regime sanzionatorio e alle attività che l’ente erogatore deve porre in essere. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, l’art. 25 co. 11 del D.L. 34/2020, infatti, prevede l’erogazione dei contributi sulla base di mere allegazioni da parte del richiedente, mentre il comma 12 qualifica il controllo che Agenzia delle Entrate deve svolgere come meramente eventuale e come successivo all’erogazione del contributo. Il comma 14, infine, dispone che in caso di contributi in tutto o in parti non spettanti si debba applicare il reato di cui all’art. 316-ter c.p.

La Corte proseguiva evidenziando che, secondo costante giurisprudenza, il discrimine tra l’art. 316-ter c.p. e la truffa aggravata è l’assenza tra gli elementi costitutivi del primo dell’induzione in errore dell’ente erogatore.

Il Tribunale del Riesame di Napoli avrebbe, dunque, correttamente operato la riqualificazione, ritenendo integrato il delitto di indebita percezione di erogazioni pubbliche, in quanto nel caso di specie l’erogazione del contributo pubblico era avvenuta sulla base di una mera autodichiarazione mendace della società e il potere di controllo dell’Agenzia delle Entrate era successivo all’erogazione.

 

3.2. Il ricorso della difesa

Il soggetto destinatario della misura coercitiva affida le proprie doglianze a due motivi di ricorso, ritenuti dalla Corte entrambi fondati.

Con riferimento al primo, relativo alla natura dell’aggravante di cui al terzo periodo del primo comma dell’art. 316-ter c.p., la Corte riteneva che il rinvio al “fatto” descritto al primo comma fosse da interpretare come un’intenzione del Legislatore di qualificare la previsione come una circostanza aggravante e non come una fattispecie autonoma di reato. Interpretando la norma in tal modo, è agevole notare che l’aumento di pena previsto dal terzo periodo non sia superiore ad un terzo e dunque renda l’aggravante ad effetto comune.

Pertanto, dato che – ai sensi dell’art. 278 c.p.p. – nel caso di reato circostanziato da una aggravante ad effetto comune la determinazione della pena va effettuata in relazione al reato-base non circostanziato, la Corte ha statuito che nel caso di specie non fosse possibile applicare alcuna misura coercitiva (irrogabile infatti solo per delitti per i quali la legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni) poiché la pena di riferimento era quella dell’art. 316-ter co. 1 primo periodo, cioè da sei mesi a tre anni.

 

Il secondo motivo, parimenti accolto, afferiva all’erronea interpretazione operata dal Tribunale del Riesame di Napoli in relazione alla qualificazione dei contributi di cui ai Decreti Sostegni e Sostegni-bis come misure che incidono o minacciano di incidere negativamente sul patrimonio dell’U.E.

Secondo il Tribunale, infatti, l’indebita percezione si sarebbe posta in contrasto con le politiche finanziarie dell’U.E. e avrebbe determinato una inefficace allocazione delle risorse.

In relazione al punto trattato dalla Corte veniva in rilievo la direttiva 2017/1371/UE, che statuisce al considerando (1) che «La tutela degli interessi finanziari dell’Unione riguarda non solo la gestione degli stanziamenti di bilancio, ma si estende a qualsiasi misura che incida o che minacci di incidere negativamente sul suo patrimonio e su quello degli Stati membri, nella misura in cui è di interesse per le politiche dell’Unione».

La Corte di Cassazione, evidenziando un difetto di motivazione del provvedimento del Tribunale del Riesame, rimarca quanto già affermato dalle Sezioni Unite (Cass. pen., S.U., 25 giugno 2009, n. 38691) in relazione al fatto che l’interpretazione conforme al diritto europeo non può valicare i limiti dell’interpretazione e non può avere effetti ampliativi dell’ambito di rilievo penale.

Ebbene, attraverso l’interpretazione avanzata dal Tribunale di Napoli è evidente che la fattispecie di cui all’art. 316-ter c.p. sarebbe stata analogicamente estesa in malam partem, ricomprendendo i contributi di cui ai Decreti Sostegni e Sostegni-bis tra quelli che incidono o minacciano di incidere negativamente sugli interessi finanziari dell’Unione.

In conclusione, la Corte ha affermato che la condotta asseritamente commessa dalla persona sottoposta ad indagini avrebbe offeso – alla luce delle evidenze probatorie prodotte in sede di riesame – solo il patrimonio dello Stato italiano, che è l’ente erogatore, e non già gli interessi finanziari dell’Unione europea.

Per le ragioni sin qui esposte, la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso del pubblico ministero e accoglie quello del ricorrente, annullava senza rinvio l’ordinanza del Tribunale di Napoli e l’ordinanza del Gip del Tribunale di Avellino e, infine, ordinava la cessazione della misura degli arresti domiciliari e l’immediata liberazione della persona sottoposta ad indagini.

 

4. Conclusioni

La pronuncia in esame riveste un ruolo considerevole in quanto è la prima che nel panorama giurisprudenziale si esprime sull’esatta natura dell’aggravante di cui all’art. 316-ter co. 1 terzo periodo c.p., che non era stata mai oggetto di specifica disamina da parte della Corte di Legittimità.

Un ulteriore pregio della pronuncia – rilevante in relazione ai plurimi procedimenti penali per indebita percezione nei quali viene contestata l’aggravante del pregiudizio all’U.E. – afferisce alla esatta individuazione delle caratteristiche dei contributi erogati in base ai Decreti Sostegni e Sostegni-bis e alla precisazione che tali contributi potrebbero danneggiare solo il patrimonio nazionale e non anche gli interessi finanziari dell’U.E.

 

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