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La transizione ecologica procede con difficoltà su vari fronti per diversi motivi. In questo articolo ci soffermiamo su tre di essi proponendo una soluzione che potrebbe intervenire positivamente su ciascuno allo stesso tempo. Un primo problema è quello dell’efficientamento energetico degli edifici, reso ancor più evidente dopo il dibattito e le polemiche attorno alla recente Direttiva Green dell’Unione Europea. Gli edifici sono responsabili di circa un terzo delle emissioni climalteranti. Se costruirne di nuovi ad impatto zero non sarà d’ora in poi un problema, viste le nuove tecnologie a disposizione, la ristrutturazione di quelli esistenti (metà dei palazzi in Italia è nell’ultima classe energetica, quella a più alte emissioni per metro quadro) lo è sicuramente. Efficientare energeticamente una casa (infissi, coibentazione, sostituzione delle caldaie con impianti a pompe di calore, installazione di pannelli sui tetti ove possibile) costa varie decine di migliaia di euro e il “rendimento” dell’intervento per il privato (riduzione dei costi di riscaldamento, aumento della classe energetica che aumenta il valore dell’immobile) non basta per compensare i costi sostenuti. Per ovviare al problema sono necessari incentivi, ma quelli del 110%, accolti al tempo col favore di tutte le forze politiche, si sono rivelati mal calibrati e troppo generosi. L’Unione Europea nella direttiva green parla di circa 250 miliardi necessari per raggiungere gli obiettivi di carbonizzazione nel settore dell’edilizia, ma delude i paesi membri non mettendo a disposizione nuove risorse e chiedendo di fare con quelle già stanziate.

Il secondo problema è quello dello sviluppo delle comunità energetiche rinnovabili che hanno il pregio di rendere la produzione di energia un processo diffuso e partecipato dal basso. Il Paese ha aspettato circa due anni i decreti attuativi che ne bloccavano l’avvio e adesso i centinaia di progetti in cantiere iniziano ad essere realizzati (le nuove comunità sono già più di un centinaio). La crescita del numero delle Cer con la nascita di nuove unità è però lenta e al di sotto del potenziale atteso. I motivi sono vari, ma uno di questi è il costo dell’investimento iniziale che si ripaga solo lentamente e, se sussidiato, non è cumulabile con l’incentivo all’autoconsumo.

Il terzo problema è quello della strategia ottimale scelta dalle imprese per raggiungere realmente l’obiettivo di “emissioni nette zero” superando la tentazione di dichiarazioni di facciata prive di sostanza, come avviene nei casi di green washing. Come è noto emissioni nette zero implica realisticamente che le aziende generino un livello di emissioni positivo se vogliono portare avanti la propria attività caratteristica, compensato poi da azioni ed iniziative che riducono le emissioni per una quantità tale da pareggiare gli effetti della propria attività. Poiché le azioni di compensazione sono comunque costose e non sempre efficaci il rischio di green washing è elevatissimo. La tipica attività considerata è quella della riforestazione o afforestazione (piantumazione di alberi). Le dichiarazioni d’intenti in materia rischiano però di rimanere nel vago se non vengono monitorate e certificate. E si è assistito anche a speculazioni come quelle di considerare il finanziamento dell’attività di manutenzione di parchi come foriero di riduzione di emissioni senza aumentare di un’unità gli alberi piantati.

Una strategia che può contribuire a risolvere simultaneamente i tre problemi potrebbe essere quella di aziende che scelgono come attività di compensazione quella di finanziare gli investimenti per la nascita di comunità energetiche rinnovabili. I costi, come detto, sono di qualche decina di migliaia di euro. A differenza della piantumazione di alberi i benefici in termini di riduzione di CO2 sono immediatamente ed esattamente quantificabili visto che nelle Cer l’energia prodotta autoconsumata ed incentivata, o quella venduta al gestore della rete, è misurata con precisione. In questo modo l’azienda potrà garantire che la sua azione di compensazione non è solo di facciata e, al contempo, le comunità energetiche riceveranno una spinta molto significativa per superare costi e difficoltà iniziali. Infine, sempre attraverso questa strategia, l’attività di efficientamento degli edifici potrebbe finalmente trovare forse l’unico modo per diventare redditizia, quello della nascita di una comunità energetica i cui investimenti iniziali sono finanziati in toto o almeno in parte dall’esterno. Con il sostegno dell’investimento iniziale e il finanziamento dell’attività di efficientamento più redditizia (la produzione di energia della comunità) il saldo tra costi e ricavi potrebbe cambiare significativamente. Si potrebbe obiettare che il meccanismo è in grado di funzionare anche attraverso la costruzione di impianti per singoli proprietari di immobili ma non è così. In primo luogo l’impatto in termini di CO2 evitata rispetto ai costi è molto superiore nel caso di nascita di una comunità energetica. In secondo luogo l’operazione ha l’ulteriore vantaggio di rendere conveniente e possibile l’efficientamento energetico anche per edifici che non possono installare sui propri tetti i pannelli godendo del fatto che le comunità possono nascere anche con consumatori passivi che usano energia prodotta da membri della comunità dove questo è possibile. Un’operazione di questo genere su larga scala potrebbe essere ulteriormente sostenuta e promossa da investitori istituzionali pazienti (fondi immobiliari, Cassa Depositi e Prestiti) che potrebbero avere ulteriore interesse a svilupparla e concentrare magari l’iniziativa sulle fasce a basso reddito. Finita la contesa elettorale più che contrapporsi ideologicamente su chi è a favore o contro la transizione ecologica sarebbe utile sviluppare soluzioni efficaci e condivise sui problemi che superino la contrapposizione tra lotta all’emergenza climatica e difesa degli interessi economici, soprattutto dei più deboli. Questo è un esempio di come potrebbe essere possibile riconciliarli.


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