Le tavole decolonizzate di Victoire Goulobi

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Può la cucina rappresentare uno strumento di decolonizzazione delle mentalità? L’arte e la cultura gastronomiche, hanno quel potere che libera da discriminazioni e promuove giustizia sociale? E la donna, che in cucina è stata relegata per secoli, può trovare la sua emancipazione a partire da ricette, pentole e fornelli?

La risposta a tutte queste domande è un potente e convincente ‘Sì’ se a fornirvela è Victoire Gouloubi, la chef italo-congolese tra le più rivoluzionarie e innovative della scena contemporanea, capace di scompigliare un ambiente ingessato e blindato e sovvertire un ordine fatto da e di uomini. Bianchi.

Dopo una gavetta iniziata da giovanissima presso alberghi e ristoranti famosi in Italia e all’estero, Victoire ha scalato le impenetrabili vette del mondo del food divenendo la prima chef nera, donna e africana, alla guida di locali rinomati nel milanese come il Ristorante l’Assassino, l’Hotel Sheraton Four Points di Milano, o il ristorante Mirtillo Rosso. Ha condotto varie trasmissioni su Gambero Rosso Channel e ideato e realizzato Uma Ulafi, il salone delle eccellenze delle culture gastronomiche afro-caraibiche in Italia.

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A fine novembre è sbarcata nelle librerie con il suo primo libro Siamo ingredienti e non sapevamo di esserlo, edito da Trèfoglie, marchio di Flaco Edizioni Group. Lontano anni luce da un testo di ricette, Siamo ingredienti è piuttosto un manifesto politico che unisce a ricerca scientifica e storica, l’esperienza sul campo e il vantaggio di essere donna e africana.

L’abbiamo incontrata a Roma, a margine di un dibattito sullo spreco alimentare organizzato dalla associazione ReFoodGees, in cui è intervenuta.

Chef Victoire, a un certo punto ha sentito la chiara esigenza di scrivere un libro, quasi un manifesto, con tratti storici, geopolitici, statistici molto accurati, perché? E perché a partire dal cibo?

Fa bene a chiamarlo manifesto, ho sentito l’urgenza di quel grido che sale su quando ne hai abbastanza. Coltivavo da tempo il desiderio di un libro di cucina che però non fosse un testo di sole ricette, perchè ritengo che ci sia urgenza di una vera e propria letteratura gastronomica. Ci penso da anni ma è un bene che non l’abbia potuto scrivere prima, perchè i tempi non erano ancora maturi, per usare una metafora a me cara, il materiale non era cotto a puntino. In sostanza volevo raccontare quello che ho vissuto e sto vivendo come donna, come africana e come chef donna, tre categorie che per una storia sbagliata fanno difficoltà a emergere. E volevo farlo attraverso la cucina che considero una potente arma, ma non di distruzione, qualcosa, al contrario, di pacifico che può cambiare le cose.

Cibo e Africa: che relazione c’è tra l’alimentazione e secoli di schiavismo e colonialismo?

Il cibo è alla base di schiavismo e colonialismo. Ripenso spesso a Radici (il romanzo omonimo di Alex Haley da cui è stata tratta una miniserie televisiva che narra delle vicende di Kunta Kinteh, un gambiano trasferito come schiavo negli Stati Uniti a metà del 1700). Individui presi con forza e resi schiavi e il cibo utilizzato per realizzare al meglio lo schiavismo. Certi alimenti dall’alto potenziale nutritivo o curativo, venivano proibiti per indebolire le masse. Il cibo migliore veniva saccheggiato, intere piantagioni o coltivazioni venivano bruciate dai bianchi per sottomettere anche dal punto di vista alimentare i nostri popoli. Agli schiavi veniva offerto cibo putrefatto o gli avanzi. Questo ha contribuito a distruggere la nostra cultura gastronomica ma anche a creare quella nozione secondo cui ciò che mangia il nero fa schifo. In un certo senso, però, la storia si perpetua: quanti chef africani si sono affermati in Italia? Eppure ne conosco tanti e c’è una diaspora africana di circa 2 milioni di persone in Italia, non c’è curiosità, voglia di conoscere perché l’Africa, con le sue culture, è considerata qualcosa di lontano, di inferiore, c’è ancora un atteggiamento coloniale, in alcuni casi marcatamente razzista.

E poi, abolita la schiavitù nel mondo, in perfetta coincidenza, è sorto il colonialismo…

Esattamente. Durante le conquiste coloniali molti attori economici e politici bianchi hanno usato il cibo come mezzo di sterminio contro le comunità locali. La distruzione delle scorte di cibo era, e secondo me è tuttora, una strategia ben precisa. E nonostante ciò sia un fatto più che noto, raramente il cibo viene associato agli obiettivi del colonialismo.

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Nel suo libro un secondo grido di protesta si leva in merito alla condizione della donna

Sì, e posso dire di avere i titoli per parlare di diritti visto che racchiudo in una sola persona tutte le possibili difficoltà a emergere, sono donna, nera, africana e volevo fare la chef, non mi bastava far parte della brigata, puntavo a essere la chef. La cucina in realtà è una prigione, ed è paradossale che per secoli a noi ci abbiano detto, sei una donna, stai zitta, il tuo posto è in cucina a preparare da mangiare. Ma se in cucina ci voglio entrare per emergere, per una mia carriera, per eccellere, improvvisamente diventa un luogo per soli uomini. Come scrivo nel mio libro, secondo le statistiche del 2023 dell’Economics Daily, le donne chef che hanno lavorato a tempo pieno, hanno guadagnato 81 centesimi per ogni dollaro guadagnato dagli uomini. Ciò significa che la paga delle donne in media è di 164 dollari a settimana in meno, per un totale di 8.528 dollari in meno all’anno per lo stesso identico lavoro. E il divario anziché diminuire, aumenta: 3 centesimi in meno rispetto al 2011.

In un passaggio tra i tanti interessanti del suo libro, si fa riferimento a una ricerca sulla qualità dell’alimentazione in 197 Paesi (che ha coperto quasi 4,5 miliardi di adulti, il 90% della popolazione globale, ndr) condotta dall’Università di Cambridge, poi pubblicata sulla rivista The Lancet Global health, secondo cui tra le prime dieci cucine sane al mondo, nove sono africane. Chi lo avrebbe detto…

Sono le sorprese che si scoprono non avendo approcci preconfezionati. Le migliori cucine, quelle cioè sane, creative, rivoluzionarie, equilibrate, sono proprio in Africa. L’Africa rappresenta un modello a cui tendere, una cucina sana a cui dobbiamo arrivare perchè permette di raggiungere il giusto equilibrio tra colture, allevamenti e benessere fisico. Questa, in un certo senso, è una contestazione a chi pensa che cibo sano significhi cibo per ricchi da una parte, ma anche a chi crede che apprezzare e riconoscere le nostre culture, sia quasi uno sforzo buonista: a volte ho la netta sensazione che le rare situazioni in cui le nostre cucine vengono premiate, sia quasi per dire: ‘vedi non siamo razzisti’. La ricerca, invece, dimostra chiaramente che le nostre tradizioni sono le migliori, nonostante tutto quello che abbiamo subìto. Qualcosa che libera noi stessi dal complesso che dobbiamo piacere all’uomo bianco, che dobbiamo sempre aspettate lo zio Tom di turno che ci dice, «In fondo siete bravi anche voi». Questo è anche il senso del mio libro, creare coscienza tra i bianchi così come tra i neri.

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