Negli ultimi giorni, l’opinione pubblica è venuta a conoscenza dell’avvio di un’indagine, da parte della Procura della Repubblica di Milano, in capo alla società “X” (Twitter International Unlimited Company, con sede in Irlanda).
La contestazione è di omessa dichiarazione IVA ex art. 5 del DLgs. 74/2000, per gli anni dal 2016 al 2022, e segue lo stesso schema dell’indagine riguardante Meta (anch’essa con sede irlandese), da poco conclusa.
Per “X”, tuttavia, l’entità dell’imposta contestata è di molto inferiore rispetto a quella attribuibile a Meta (il dato diffuso è di 12,5 milioni di IVA evasa contro circa 870 milioni di euro).
Da quanto si apprende, le contestazioni in capo ai due gruppi proprietari dei noti social network (da un lato Facebook e Instagram, dall’altro l’ex Twitter) sono sulla stessa falsariga.
L’accusa sostiene che vi sia una contropartita tra le prestazioni fornite mediante l’utilizzo delle piattaforme social e i dati personali forniti dagli utenti per l’iscrizione alle stesse.
La contestazione muove essenzialmente dal fatto che l’iscrizione al sito, sebbene avvenga in forma gratuita, presupporrebbe il pagamento di un corrispettivo non monetario, elemento dal quale discenderebbe l’applicazione dell’IVA.
Secondo questa tesi, sarebbe quindi integrata un’operazione permutativa, ai sensi dell’art. 11 del DPR 633/72, vale a dire una prestazione di servizi effettuata quale corrispettivo di un’altra prestazione di servizi, il che impone l’assoggettamento a IVA in via autonoma.
L’acquisizione dei dati personali degli iscritti ai social network e la possibile profilazione dei gusti e dei consumi consente, infatti, alle società che gestiscono le piattaforme di trarre un beneficio economico (derivante, ad esempio, dalla cessione dei dati per fini pubblicitari o di marketing di soggetti terzi).
La qualificazione delle operazioni di Meta e di “X” nell’ambito dello schema della permuta, da parte erariale, avverrebbe nonostante il fatto che – secondo la normativa nazionale – non configurino operazioni soggette a IVA le prestazioni di servizi gratuite rese per finalità che non siano “estranee all’esercizio dell’impresa” ex art. 3 comma 3 del DPR 633/72 (fatte salve quelle espressamente richiamate dalla norma, come le mense aziendali o i servizi di trasporto).
In base all’opinione dell’Agenzia delle Entrate, “pur in mancanza di un corrispettivo in denaro, ai sensi dell’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972” determinate prestazioni “non possono considerarsi rese a titolo gratuito” in quanto riconducibili nello “schema contrattuale a titolo oneroso della permuta, disciplinato, agli effetti dell’IVA dall’art. 11 del citato d.P.R. n. 633 del 1972” (risposta a interpello n. 31/2023).
A una simile conclusione sembra essere giunta la Cassazione, secondo cui “la cessione gratuita vera e propria si manifesta, a fini fiscali, solo quando il trasferimento del bene sia davvero senza controprestazione, mentre restano escluse le operazioni permutative (art. 11) e quelle cessioni nelle quali la carenza apparente della controprestazione trova una peculiare giustificazione economica e giuridica” (Cass. 29 luglio 2015 n. 16030).
La difesa delle piattaforme, invece, risiede nel fatto che le operazioni non possono considerarsi soggette a IVA, in carenza del presupposto oggettivo del tributo, in ragione della natura gratuita della prestazione. Dal che ne consegue che non fosse dovuta la dichiarazione annuale per gli anni oggetto di contestazione.
È ragionevole ritenere che la posizione di Meta si basi anche sull’indirizzo fornito dal Comitato IVA, istituito in seno alla Commissione europea. Secondo lo studio elaborato nel Working paper n. 958 del 30 ottobre 2018, con specifico riguardo ai servizi di tecnologia dell’informazione (c.d. “IT services”), è da escludersi la rilevanza IVA in tutti i casi in cui detti servizi siano prestati in cambio dell’ottenimento dei dati personali del cliente fruitore. Ad avviso del Comitato, infatti, la circostanza per cui le informazioni “cedute” dal cliente abbiano un valore economico non sarebbe di per sé sufficiente a far ritenere che il servizio ricevuto in cambio sia stato prestato a titolo oneroso.
Il documento è fondato sui principi della Corte di Giustizia (cfr. ex multis cause C-432/15, C-246/08 e C-16/93), tali per cui una prestazione di servizi può considerarsi soggetta a IVA nelle sole ipotesi ove esista un nesso diretto fra il servizio prestato e il controvalore ricevuto.
In altri termini, la prestazione di servizi risulterebbe effettuata a “titolo oneroso” (e, dunque, rilevante ai fini IVA) nelle sole ipotesi in cui tra il prestatore e l’utente intercorra un rapporto giuridico nell’ambito del quale avvenga uno scambio di reciproche prestazioni e il compenso ricevuto dal prestatore integri il controvalore effettivo del servizio prestato all’utente (si veda “Fuori campo IVA i servizi elettronici resi in cambio della cessione di dati personali” dell’8 febbraio 2021).
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