E’ un disegno necessario quello che il direttore del Prado, Miguel Falomir Faus, sta tratteggiando ormai da qualche tempo, assieme al Jefe de Colección de Escultura, Manuel Arias Martínez (nominato nel 2021), per ripensare il ruolo da riconoscersi alla statuaria d’epoca moderna nelle sale del museo. Lo è perché tale riflessione parte dalla presenza – in fondo ‘ancillare’ – attribuitale storicamente nel contesto di quelle collezioni e confermata a seguito dei pur efficacissimi lavori di ampliamento guidati da Rafael Moneo fra 1998 e 2007. Si pensi, ad esempio, alla scenografica pianta alta del chiostro de los Jerónimos, nella quale, a seguito di quell’imponente cantiere, si era scelto di raccogliere un gran numero di sculture, a figura intera o in rilievo, eseguite per la monarchia spagnola dalla bottega dei Leoni, il padre Leone e il figlio Pompeo, artisti lombardi attivi al servizio degli Asburgo fra XVI e XVII secolo: uno spazio sontuoso, di forte impatto, e tuttavia lontano dal percorso di visita, col risultato di vederlo spesso trascurato dal pubblico stanco, attratto piuttosto dalla monumentale galleria e dalla rotonda velazquiana.
E sì che le raccolte hanno, in inventario, veri e propri gioielli del panorama europeo fra Cinque e Seicento: oltre al tour de force fusorio del Carlo V vittorioso sul Furore, ‘statua da vestire’ compiuta per ordine imperiale attorno al 1551-’53, si possono almeno citare le discusse silhouettes dell’Epimeteo e della Pandora, a oggi le uniche immagini tridimensionali accostate al catalogo del Greco. Ma si deve anche ricordare che il Prado è, di fatto, il responsabile di depositi generosi, concessi per arricchire le sale di altre, celebri istituzioni sul territorio nazionale: fra tutti, il sublime, notturno, perturbante Cristo deposto di Gregorio Fernández, l’opera più luminosa, spettrale del Museo Nacional de Escultura di Valladolid.
In mente questo capolavoro inarrivabile (il giudizio rivolto dalla Spagna all’intero continente), vertice del Barocco con la sua viscosa miscela di devozione e sensualità, appare dunque del tutto ragionevole che sia oggi aperta al Prado, nelle sale al pian terreno della nuova ala, una mostra – forse la prima di tale ampiezza e ambizione – dedicata alla scultura policroma del Siglo de Oro: Darse la mano Escultura y color en el siglo de oro, a cura di Manuel Arias Martínez (fino al 2 marzo 2025). Mentre, infatti, gli esiti iniziali dell’ampio progetto di riallestimento si scorgono nell’Edificio Villanueva, dove al livello nobile i ritratti carolini di Tiziano hanno ripreso a confrontarsi con quelli, coevi, in bronzo e in marmo, parte integrante di una ben calibrata propaganda asburgica, è in questo quadro che Arias Martínez s’è dato a meditare, con liberalità di mezzi, attorno a una produzione tanto caratteristica per il contesto iberico; ed è allora in particolare significativo che, nell’imbastire un percorso articolato, abbia scelto di metterne soprattutto in evidenza il valore di creazione meticcia, nella quale la pittura gioca un ruolo decisivo per qualificare, per render significanti le superfici in rilievo.
Il curatore, prima del suo arruolamento al Prado, era stato d’altronde – con lungo incarico – vicedirettore proprio a Valladolid: studioso di Alonso Berruguete e Gaspar Becerra, sa bene quanto, nell’ultimo trentennio, le ricerche sulla scultura, sia antica che moderna, abbiano trovato un focus attorno a tali aspetti, consegnando agli studi novità di grande rilievo, foriere d’indagini ulteriori.
Dietro alla mostra madrilena si leggono cioè gli esiti teorici e concettuali di precedenti fra cui The Color of Life (tenutasi al Getty nel 2008), En couleurs dell’Orsay (nel 2018) o Like Life del Met (nello stesso anno, il saluto al museo di Luke Syson), pur spesso riferiti a cronologie dilatate o decisamente rivolti alla modernità; mentre, con ogni evidenza, può esser servito da pietra di paragone un appuntamento, al tempo assai dibattuto ma apripista in termini di vague scientifiche (e mercantili), come The Sacred Made Real, tenebrosa selezione di scultura spagnola del Seicento proposta da Xavier Bray alla National Gallery di Londra nel lontano 2009, poi passata a Washington per una seconda tappa.
La selezione del Prado ha però il merito di mettere a fuoco, in una vera e propria mostra-saggio, i fondamenti che, per questo genere specifico, sono stati predisposti dalla letteratura artistica coeva. Indaga così le ragioni e gli scopi d’immagini rivolte a un’illusione di realtà, insieme commovente e convincente, giocata sulla presenza umbratile del medium, partecipe dello stesso spazio e della stessa luce condivisi dallo spettatore.
Il catalogo, pertanto, in dialogo sincrono coi pezzi esposti, esemplifica bene i miti fondativi alla base di una simile conversazione. Riunisce soprattutto una Legenda aurea, un’agiografia che – indiscriminatamente – viene a riferirsi all’idea stessa di una figura dipinta, in terra o legno, ma anche in marmo o in bronzo, polimaterica o solidamente eseguita in un’essenza compatta.
Si compone quindi una galleria, pietosa ma fiammante, di Crocifissi flessibili come muscoli in palestra, di Vergini dalle guance rosee tinte di lacrime, di Madonne appollaiate su alberi secolari, di Serafini soffici quanto fanciulle seducenti. Vi si susseguono Gesù commestibili o natanti sulle onde, pesati al costo miracoloso di trenta danari, quasi le libbre sul tavolo di un macellaio; Marie stillanti latte come ambrosia, Madri in lutto, irsute di pianto e di pugnali.
Icone tutte «verisimili», per tradurre l’idea concreta di una religione di carne, nel pensiero di un Dio «primo scultore», Pigmalione innamorato di un’umanità originale: viatico a visioni successive in lotta con la bidimensionalità, la mente alla devozione atomica del Dalì profeta vegliardo, dalla Madonna di Port LIigat al Cristo di Glasgow.
Un simile repertorio statuario trova nel colore l’unica «resurrezione» possibile, per citare una formula spesso impiegata dalla letteratura cui fa riferimento il colto saggio di Arias Martínez, il solo respiro, la vibrazione capace di suggerire un empito, infuso ad animarlo. Fra le molte metafore affastellate in quei testi, in una girandola di eufemismi, di similitudini, di rimandi che spazia dalla sapienza antica alla mistica, dall’ermeneutica biblica alla poesia, sembra nondimeno di leggere un timore soggiacente, che ha che fare piuttosto con l’idea di tempo, coll’implacabile consumarsi di una clessidra: si tratta del resto di un argomento sempre giocato a favore della scultura negli intricati dibattiti sul tema del Paragone, cari alla disputa accademica d’epoca moderna. La policromia, infatti, si smorza, si guasta, si rovina; e di fronte alla durevolezza eternizzante dell’«idolo» tridimensionale rimanda alla caducità di ogni materia, nonostante lo sforzo creativo mirante al «per sempre».
Colore chiama morte, oltre che vita. Sarà per questo che ad attraversare la mostra del Prado, di sala in sala sino al finale pirotecnico sul Cristo del Perdón di Luis Salvador Carmona, torna alla mente un’arguzia macabra di Eugeni D’Ors, rubata a un’invenzione di Francisco de Cossio. Di fronte alle opere di Berruguete, raccolte a Valladolid, tutte d’oro, d’azzurro e di carminio, l’ispiratore del Nouecentisme mediterraneo si sarebbe, infatti, lasciato ipnotizzare dal suono incessante dei tarli, che sotto alla pelle policromata rodevano il legno nutriente di quelle sculture; ma nel suono prodotto dagli insetti xilofagi avrebbe riconosciuto, nella suggestione d’un momento, l’eco di un’essenza più vivace, quasi una voce, un bisbigliare lento e continuo, testimonio dell’anima pensante di quelle figure sfolgoranti.
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