Transizione industriale, ecco il bando

Effettua la tua ricerca

More results...

Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors
Filter by Categories
#finsubito

Richiedi prestito online

Procedura celere

 


Dal PNRR 400 milioni di euro – a fondo perduto – a disposizione delle imprese italiane che presenteranno progetti finalizzati alla transizione industriale e alla lotta ai cambiamenti climatici. Sono finanziabili le spese che riguardano gli investimenti in infrastrutture e i costi per la formazione del personale. Ma occorre mettere le aziende in grado di spendere queste risorse e mancano riferimenti a obiettivi specifici di decarbonizzazione. Ne abbiamo parlato con Massimiliano Mazzanti dell’Università di Ferrara

L’occasione, sulla carta, è ghiotta. Altri 400 milioni di euro a disposizione delle imprese italiane che presenteranno progetti finalizzati alla transizione industriale e alla lotta ai cambiamenti climatici. I soldi ancora una volta arrivano nell’ambito del PNRR. Dopo la prima tranche attivata nell’ultimo trimestre del 2003, per questa seconda misura ci sarà tempo fino all’8 aprile (salvo proroghe) per presentare progetti sulla base di due macro-obiettivi.

Il primo è quello di una più elevata efficienza energetica nell’attività di un’impresa di produzione, con un risparmio realizzabile tramite impianti di autoproduzione di energia da fonti rinnovabili, da idrogeno, di cogenerazione con un elevato rendimento e di impianti per lo stoccaggio di energia. Il secondo macro-obiettivo invece guarda ai flussi di materia. Ovvero a progetti che consentano un uso più efficiente delle risorse attraverso la circolarità, il riuso, il riciclo o il recupero di materia. 

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati

 

Massimiliano Mazzanti, professore di politica economica all’Università di Ferrara

«In entrambi i campi il nostro Paese è messo piuttosto bene», spiega Massimiliano Mazzanti, professore di politica economica all’Università di Ferrara. «L’efficienza energetica in Italia è molto alta, ma è pur vero che la domanda di energia è in aumento costante. Pertanto è necessario fare tutti gli sforzi possibili per andare verso l’autonomia energetica. Magari con un ricorso massiccio delle energie rinnovabili, anche considerando che nel prossimo anno sono previsti ulteriori picchi del prezzo del gas. Del resto l’autonomia energetica è fondamentale proprio per alimentare la manifattura circolare che è un altro fiore all’occhiello della nostra economia. L’Italia oggi ha la grande opportunità di diventare la locomotiva dell’industria circolare».

A chi si rivolge il bando per la transizione industriale

I progetti da presentare al bando transizione industriale devono prevedere spese tra i 3 e i 20 milioni di euro per ogni unità produttiva. Dovranno essere realizzati entro i 36 mesi dalla data di ottenimento del finanziamento, che è a fondo perduto. Le categorie di spesa finanziabili riguardano gli investimenti in infrastrutture e i costi per la formazione del personale. Il 40% sarà riservato alle regioni del centro sud: (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sicilia e Sardegna). Invece, un altro vincolo – in linea con gli obiettivi di transizione ecologica definiti dal Fondo – prevede che il 50% delle risorse sia destinato alle imprese che consumino quantità più elevate di energia. L’elenco della Cassa per i servizi Energetici e Ambientali CSEA, e individua tra quelle che presenteranno istanza.

Il fondo segue dunque il format canonico di tutti i bandi del Pnrr, compreso il 40% del totale del finanziamento riservato al sud. Quindi sembra un piano ben disegnato, con un focus sull’efficienza energetica ben delineato anche dal punto di vista della coerenza ambientale. Infatti, all’interno del bando è definita una limitazione importante per progetti relativi al consumo di suolo. Il provvedimento privilegia situazioni in cui non è prevista un’occupazione ulteriore di suolo da parte degli impianti. 

Mancano gli obiettivi specifici di decarbonizzazione

Dal punto di vista formale però, uno dei punti deboli di questo fondo Pnrr per la transizione industriale è la mancanza di riferimenti a obiettivi specifici di decarbonizzazione. «Faccio un esempio molto concreto – continua Mazzanti –  abbiamo a disposizione gli indicatori di circolarità definiti da Eurostat. Si tratta di indicatori consolidati e non complicati che vengono sviluppati regolarmente da ogni impresa e che mettono in relazione il fatturato con le quantità di tonnellate di CO2 equivalente risparmiata. Eppure in questo bando non si chiede il rispetto di questi indicatori di performance, che pure renderebbero il fondo più coerente con le strategie globali».

Non ci sono limitazioni invece dal punto di vista dimensionale. Le imprese possono essere grandi imprese o PMI, purché abbiano la sede nel territorio nazionale e operino nei settori estrattivo e manifatturiero. Sono escluse invece le imprese in liquidazione volontaria o sottoposte a procedure concorsuali. Ma anche come quelle in difficoltà già al 3 dicembre 2019 (periodo pre Covid), quindi quelle non in regola in materia di obblighi contributivi.

Gli investimenti non devono già essere stati avviati. Inoltre, per poter accedere alle risorse del Fondo, i progetti devono essere supportati da uno studio o Relazione Tecnica. Ma a condizione che la redazione avvenga ad opera di esperti qualificati, per definire lo stato dell’arte dell’unità produttiva, gli interventi pianificati e i risultati previsti. La graduatoria sarà redatta in base ad un punteggio commisurato alla variazione percentuale di risparmio di energia e di risorse. Gli indicatori saranno specifici per ciascun obiettivo ambientale e saranno calcolati sulla base dei dati forniti dalle stesse imprese nella Relazione Tecnica.

I soldi ci sono ma il nostro Paese ha difficoltà a spenderli

È difficile criticare quando ci sono soldi in ballo a disposizione delle imprese, ma bisogna anche mettere le imprese in grado di spenderli. Stando a quanto emerge da un’analisi dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani, il ritmo che stiamo tenendo sulle precedenti misure è a dir poco blando. Negli ultimi anni l’Italia ha infatti ottenuto dall’Ue più fondi di tutti gli altri Stati membri. Ma al 30 settembre 2024, i soldi effettivamente spesi sono stati 57,5 miliardi, pari solo al 29,6% del valore totale del Pnrr (194,4 miliardi). Il che significa che in soli due anni dovrebbero essere effettuate quasi il 70% delle spese previste dal piano.

Come ricordano gli autori dell’analisi pubblicata sul sito dell’Osservatorio Cpi, al nostro Paese sono stati assegnati 71,8 miliardi di euro in sussidi e 122,6 miliardi in prestiti a lunga scadenza. Sono risorse che provengono dal fondo Recovery and resilience facility (Rrf). È il principale fra gli strumenti del piano Next generation Eu con cui la Commissione europea ha tracciato la rotta per la ripresa economica degli Stati membri in seguito alla crisi pandemica. All’Italia è quindi stata assegnata una dotazione pari al 27% del totale. Si tratta di una percentuale notevolmente superiore a quella del Pil (12,3%). Ed è frutto della scelta di molti altri Paesi che hanno deciso di non avvalersi dei prestiti proposti. 

Cessione crediti fiscali

procedure celeri

 

Servono misure strutturali

Se dunque il 2026 appare cruciale per la capacità di spendere i soldi stanziati dalle precedenti misure, anche dal punto di vista programmatico i dubbi sono tanti perché il Pnrr è una misura temporanea, mentre per esempio i fondi ministeriali sono strutturali e su questi pesa l’annuncio di un taglio del 5-6%.

Spesso mancano le risorse professionali per presentare le domande

Secondo Mazzanti la mancanza di certezze ha fatto sì che negli anni passati molti soldi disponibili non venissero poi effettivamente spesi o addirittura neppure assegnati. «Se ci si lamenta che manca una risposta da parte delle aziende del meridione – spiega – bisogna tenere conto del fatto che spesso mancano le risorse professionali per presentare le domande, sia dal lato privato che dal lato pubblico.

Questi bandi Pnrr infatti sono stati una grandissima occasione di formazione: nuove procedure, nuovi bandi hanno fatto crescere nuovi ricercatori, ma questi poi vanno mantenuti. Perché se l’anno successivo non ci saranno risorse disponibili, non gli resterà altro che cercare all’estero le realtà che hanno bisogno delle loro competenze. Insomma l’auspicio è che il paese faccia uno sforzo per incrementare risorse nel post Pnrr, perché il bando ha acceso delle competenze e ha lanciato una sfida complessa e interessante anche dal punto intellettuale. Ora è necessario confermare questa strada». 

Il cronico deficit di investimenti in ricerca e sviluppo

Effettivamente uno dei problemi atavici del nostro Paese è il deficit di investimenti in ricerca e sviluppo: oggi soltanto l’1,32% del Pil italiano è dedicato alla ricerca. La Corea del Sud dedica il 5%; Giappone e Stati Uniti si aggirano intorno al 3- 3,5%, mentre la media che l’Unione europea spende è comunque molto superiore, con una percentuale di Pil pari al 2,25%.

Questa mancanza di risorse strutturali rende le aziende sempre meno fiduciose e in molti casi disincentiva a partecipare a questi fondi. Si grida alla mancanza di intraprendenza imprenditoriale, in realtà il problema è molto  concreto. Per fare un buon progetto si spendono un sacco di soldi: un’azienda deve investire risorse e tempo per produrlo e molto spesso non riesce a vincere il finanziamento, magari per errori di forma o comunque per errori che successivamente possono essere corretti con una certa facilità. Questo consentirebbe alla stessa azienda di ripresentare il progetto l’anno successivo, ma se l’anno successivo quei soldi non ci saranno, l’azienda si troverà con una perdita economica notevole. 

La strada tortuosa verso la transizione

L’opportunità data da questo nuovo fondo Pnrr per la transizione industriale sembra stridere in maniera forte con cosa sta accadendo nel mondo. È inevitabile pensare a Donald Trump che ha appena smarcato gli Stati Uniti dagli impegni sul clima, con un pericolosissimo effetto trascinamento di molti altri Paesi. Con la conferma dei dazi sulle importazioni europee delle materie prime statunitensi l’Europa rischia di restare molto più sola nella lotta i cambiamenti climatici.

Anche se, almeno da questo punto di vista, il docente di economia politica dell’Università di Ferrara appare meno pessimista. «Queste uscite di scena – dice – si sono già viste e poi in qualche modo, magari sottotraccia e senza dar troppo nell’occhio si riassorbono dopo qualche anno, come avvenuto dopo la mancata ratifica del Protocollo di Kyoto nel 2001 proprio da parte degli Stati Uniti. Perché è vero che sul momento fu una scelta di campo che fece mediaticamente scalpore, ma poi le imprese costrette a stare fuori da Kyoto chiesero il conto perché avevano perso competitività». 

Microcredito

per le aziende

 

I dazi? Uno stop and go

Effettivamente la storia economica insegna che i dazi si possono usare come minaccia nel breve periodo. Ma nel lungo termine non possono che comportare prezzi più elevati e minore competitività. Una sorta di stop and go, insomma. «Nonostante Trump e nonostante il nuovo Parlamento europeo sia molto meno attento alla sostenibilità del precedente – conclude Mazzanti – credo che il Green New Deal come politica di innovazione, reskilling, formazione  sia imprescindibile per il vecchio continente se si vogliono mantenere scenari di competitività. Anche perché le nuove opportunità di lavoro collegate al reskilling non possono che arrivare dal green digital. Insomma io credo che probabilmente ci sarà qualche rallentamento ma nulla di più. Il green new deal è la sfida più problematica che l’umanità abbia mai affrontato perché si basa sulla cooperazione. Ma sono fiducioso: non esistono altre strade, e questo lo hanno capito tutti».



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Prestito condominio

per lavori di ristrutturazione