“L’assassino di mia figlia Giulia è libero. E lo Stato ci chiede tasse su soldi mai avuti”

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I quattro paradossi di Giovanna Ferrari conseguono al dramma del femminicidio di sua figlia Giulia, passano per le astuzie difensive dell’assassino, l’ex marito Marco Manzini, e sublimano nell’inesorabilità del fisco. Con una pietra, lui la colpì alla testa l’11 febbraio 2009. Occultò quest’arma e il suo corpo nel greto di un fiume, nelle prime colline sopra Modena, fuori Sassuolo. Tentò di inscenare un suicidio, poi confessò. Ha scelto il rito abbreviato. È stato riconosciuto colpevole. Ha scontato in tutto 15 anni di carcere, ma deve ancora ai genitori e alla sorella della vittima 1 milione e 200 mila euro di risarcimenti. È libero, nullatenente, disoccupato. L’Agenzia delle Entrate, intanto, vuole 6 mila euro da Giovanna, per questi soldi che non avrà.

Signora Ferrari, lei denuncia di star vivendo una situazione assurda con il fisco. Di cosa si tratta?

«Delle tasse che l’Agenzia delle Entrate ci chiede, sul risarcimento che dobbiamo avere dal femminicida di mia figlia Giulia, il suo ex marito Marco Manzini. Denaro che non abbiamo ancora avuto e che probabilmente non vedremo mai».

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Avete ricevuto una cartella esattoriale?

«Ne abbiamo ricevute tre. Io sono stata la prima. Con il nostro civilista, ho fatto ricorso all’Agenzia delle Entrate. L’avevo già depositato, ma è arrivata una seconda cartella a mio marito. Abbiamo proceduto allo stesso modo e, nonostante questo secondo ricorso, è arrivata la cartella anche a mia figlia Elena, la sorella di Giulia. In totale, sono 6 mila 112 euro. Però, ci sono da moltiplicare per tre le spese di lite».

Come la state vivendo?

«È una battaglia dolorosa, ma abbiamo deciso di farla perché è un’esperienza comune a tutte le persone che come noi hanno subito danni morali enormi e non vengono risarcite, finendo addirittura sul lastrico per coprire i costi».

A quanto ammonta il risarcimento che vi deve Manzini?

«È una cifra molto alta, circa 1 milione e 200 mila euro, che lui, non avendo immobili intestati, non avendo più un reddito o liquidità, non avendo un fico secco, difficilmente ci pagherà mai».

Ne avete ricevuto almeno una parte?

«Siamo riusciti a pignorare un quinto del tfr che gli restava dal lavoro che svolgeva prima di essere arrestato. Abbiamo ricevuto poco meno di 2300 euro. Qui abbiamo vissuto il primo dei molti paradossi della vicenda. Ci è stato chiesto in tasse una cifra superiore a quella che ci spettava. Per altro, per ottenerla noi abbiamo dovuto attendere anni, ma le tasse ci sono state chieste subito, dopo 60 giorni».

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Com’è possibile?

«I nostri avvocati ci hanno spiegato che l’Agenzia delle Entrate calcola l’importo sull’intera cifra precettata, non su quella effettivamente percepita».

Come parte del risarcimento, avete espropriato un appartamento a Manzini. Anche su quello avete pagato tasse?

«Arriviamo al secondo paradosso. Noi quell’appartamento non l’abbiamo pignorato. Lui, immagino consigliato dai difensori, prima ancora che iniziasse il processo l’ha messo in vendita, dicendosi intenzionato a darci il ricavato. Questo, gli ha permesso di lucrare sulle attenuanti all’ora della sentenza di condanna. All’atto pratico, l’immobile è stato comprato da sua sorella e, prima della prima udienza, ci ha consegnato gli assegni per 265 mila euro. Essendo un suo gesto spontaneo, non abbiamo dovuto pagare tasse».

Ci sono altri paradossi?

«Il terzo paradosso porta la storia a livello kafkiano. Nel 2022, Manzini ottiene di poter uscire dal carcere dopo 13 anni per buona condotta. È in regime di semilibertà, può lavorare. Un impiego a tempo indeterminato, con uno stipendio di tutto rispetto. Ci propose di pagarci 50 euro al mese, come segno delle sue intenzioni di riparare al danno causato. Ci sentimmo insultati e ottenemmo che gli fosse detratto un quinto dello stipendio».

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«Circa 250 euro al mese».

Li percepite tuttora?

«No. Il giorno che ha finito di scontare la propria pena ed è tornato libero, nel luglio 2024, si è licenziato e attualmente non ha reddito».

Come lo avete saputo?

«Suo padre vive nella stessa frazione in cui abitiamo noi. Ha incrociato un’amica di nostra figlia e le ha raccontato che Marco era finalmente libero e poteva starsene in ferie».

Voi lo avete mai incontrato?

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«Personalmente, no. Ci hanno parlato alcuni amici di Giulia, persone che ci sono state molto vicine in questi anni. Ci hanno detto che non mostra alcun pentimento. Noi comprendiamo il senso della giustizia e saremmo naturalmente anche disposti a pagare ciò che dovremmo allo Stato, se lo avessimo ricevuto. Ma non è così. E questo è il quarto paradosso: a me sembra che ci sia scordati prima di tutto che mia figlia è sotto terra».



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